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Venni confinata nella vecchia camera del principe Aethelred, fratello maggiore di Alfred - una in cui avevo sempre preferito tenermi lontana, perché con lui non avevo mai avuto niente di cui spartire

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Venni confinata nella vecchia camera del principe Aethelred, fratello maggiore di Alfred - una in cui avevo sempre preferito tenermi lontana, perché con lui non avevo mai avuto niente di cui spartire.

Insolitamente, sembrava che la furia vichinga avesse risparmiato l'arredo di quello spazio, mantenendolo, per quanto privo di ricchezze, ancora intatto. Ero incapace di stare ferma, perché, se davvero mi fossi fermata, avrei avuto troppo tempo e materiale su cui pensare: perciò, rassettai quello che c'era da rassettare e poi mi sedetti a terra, iniziando a strofinare con forza i lembi sporchi e sciupati del mio abito, quasi fosse sufficiente a togliervi il sangue.
Quello fu un grosso sbaglio, perché continuavo a riflettere sul probabile possessore di questo, e su tutti i possibili modi in cui poteva essere stato ucciso. Era un civile? Era un soldato? Una donna? Un bambino? Magari, presto lo avrei raggiunto.
Ivar aveva ucciso suo fratello.

Fra tutte le cose, quella mi aveva colpito in modo diverso, perché sanciva di netto il livello di pericolosità di quel giovane dallo sguardo cupo. Lo avevo conosciuto quando era ancora sulla soglia – forse arrabbiato, ma ancora salvabile – e, dopo così poco tempo, si era perso per sempre.
Forse era dovuto alla morte del padre – si vedeva che lo amava – o quel mancato rispetto che avevo intravisto nelle conversazioni con i fratelli. Certo, Ivar aveva molte spine da cui doversi divincolare e, prima fra tutte, c'era il suo stesso corpo.
Era una persona complicata, tormentata, e per questo affascinante, se pur nel modo sbagliato. Era quel genere di persona che desideri conoscere, almeno per capire come poterti difendere, se solo fosse possibile.

Temevo che Ivar non avesse veri punti deboli e, comunque, tutto ciò che avrebbe potuto ferirlo, sarebbe potuto riversarsi con ancora più dolore sul mittente.
Era un'arma a doppio taglio.

Sollevai lo sguardo, notando che Ivar era appena entrato dalla porta, trascinandosi grazie alle sue stampelle. Lo osservai, e ne guardai soprattutto il volto, sciupato dal peso del funerale del fratello, avvenuto quando il corpo era ancora caldo. Io non ero stata invitata a partecipare.
Si avvicinò al camino accesso, appoggiandosi al muro vicino per potersi riposare un poco dopo aver camminato per così tanto. Si vedeva che era stanco e che era pentito per ciò che aveva fatto, ma, molto in fondo, ero certa che piantare quell'ascia nella fronte di Sigurd fosse un desiderio che covava da anni.
E, forse, lo capivo.

"Credo che dovresti proprio dirmi il tuo nome, ora," disse, rivolgendomi uno sguardo. Quel sorriso mi spezzò il cuore, perché così finto da non lasciare dubbio sul dolore che celava.
In fondo, forse c'era ancora un'anima in lui, se pur ben nascosta.

Io rimasi in silenzio, non sapendo bene come comportarmi. Cosa voleva da me? Perché non mi aveva lasciata in pasto ai suoi uomini? Non aveva molto senso, nemmeno per uno come lui.

"Sembra che tu non abbia ancora trovato la voce," constatò, sarcastico. "Bene."
Si rialzò, fiacco, e si avvicinò al letto, raccogliendovi da sotto la struttura un sacco di juta: quando vi vidi tirar fuori il mio diario, subito mi rizzai, attenta come non mai.

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