sessanta

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Osservo il ragazzo stampato sulla copertina del vinile posizionato nel giradischi e sorrido appena. Ha una camicia fucsia fluo, mi porta alla mente il ricordo della prima, ed ultima, cena con i miei genitori, e indossa un paio di pantaloni a vita alta bianchi. Sulla copertina del suo album. Rosa e azzurro. Non ha più paura. Non teme più di sentirsi dire che nasconde qualcosa. Come diceva mio padre. Non gliene frega più niente. Di essere etichettato. Di sembrare sbagliato. Di indossare del rosa. Dei vestiti femminili. Di essere fotografato in abiti da donna, con i tacchi, con una camicia semitrasparente. Lui è tutto questo. E ancora di più. Tutti i colori in uno solo. La stessa cosa che aveva detto di me la prima volta che gli ho fatto leggere qualcosa di mio. Lui è tutti i colori in uno solo vivendo. Ed è bellissimo così. Ci passo una mano sopra, sto sorridendo come un'ebete. Forse perché tra poche ore lo rivedrò dal vivo e non ho più l'ansia che non mi fa muovere come la prima volta. Sto bene. Anzi, non vedo l'ora. Di vederlo. Consapevole di se stesso ma in fondo in fondo ancora goffo come un bambino. L'album mi ha lasciata spiazzata. Non so se sia per la sua capacità disarmante di scrivere, per le parole che ha usato in Golden, per la completezza di Fine Line, la leggiadria di Cherry, la sensualità di She, l'armonia di Treat People With Kindness, la voglia di ballare di Adore You o Watermelon Sugar e le volte che l'ho esageratamente ascoltata per sbaglio tra la radio del supermercato e quella dell'auto.
Oppure se sia stata la rassegnazione del testo di Falling. O To Be So Lonely e la citazione di quel film speciale. La sfacciataggine di Lights Up, Do you know who you are ah? O la base di Canyon Moon. O forse è stato ritrovarmelo lì. Girasole. Il mio soprannome. Sunflower Vol.6. E ascoltare quella canzone col cuore in gola per paura di quello che ci avesse messo dentro. Allora è vero. I Don't wanna make you feel bad but I've been trying hard not to talk to you. Non voglio illudermi. Ma è stato così chiaro. Ha parlato così forte. In tutto Fine Line. Vorrei solo che fosse andata diversamente. Che fossimo riusciti a tenerci per mano anche camminando lontano.
Sospiro rumorosamente prima di alzarmi dal letto su cui sono stata sdraiata fino ad ora e specchiarmi sulla superficie dell'anta dell'armadio. Guardo le mie occhiaie frutto dei ritmi incessanti del lavoro appaiato allo studio, tutto nuovo per me. Ma ne vale la pena. Sto bene. Faccio quello che mi piace. Ventiquattro ore su ventiquattro. Vorrei dirglielo davvero. Dire a quella diciassettenne stressata, triste e spaventata che andrà tutto bene. Che avrà tanta strada da fare ancora ma che ne varrà la pena. Che i suoi amici le mancheranno ma non li perderà mai. Che le saranno sempre accanto. Che conoscerà persone altrettanto meravigliose. E sì, si sentirà sola. Ma alla solitudine si sopravvive. Anche alle mancanze. Che poi il sole torna, prima o poi. Anche per poco. Ma torna. Vorrei abbracciarla e dirle che andrà tutto bene.
"Gwen, sei pronta?" la mia migliore amica sospira rumorosamente "Cosa ci fa ancora in tuta?!?"
"Scusa, ero sovrappensiero." mugugno mentre guardo le sue mani piegate sui fianchi, sorrido appena "Cinque minuti e ti prometto che ci sono."
"Hai detto la stessa cosa un attimo fa." mi riprende.
"Lo so." sbuffo mentre mi disfo dei pantaloni e della t-shirt "Ma ora mi cambio davvero."
Infilo i pantaloni a palazzo beige e subito dopo il top chiaro. Mi batte il cuore. Lo sento attraverso il cotone. Batte all'impazzata. Sono a New York, da Daffodil, nel suo appartamento e tra due ore sarò al Madison Square Garden, in uno dei balconcini del VipBox a guardare il riccio dagli occhi verdi cantare con la chitarra appena al collo. Non credo lui lo sappia. Ma ci devo andare. Ci devo essere. Voglio sentirlo cantare quelle parole. Voglio vederlo ballare su quel palco senza veli. Senza vergogna. Ed essere felice. Per quanto faccia male vederlo star bene anche senza di me.
"Hey." guardo Daf "Che hai?"
Scuoto i capelli corti "Niente." abbozzo un sorriso "Pensavo."
"A cosa?"
"Niente di importante." infilo i tacchi e la tracolla.
Incrocia le braccia al petto "Sei... sempre sicura?"
Annuisco "Sì." sospiro "Voglio esserci."
Sorride "Sei bellissima." sbuffo una risata e la spintono leggermente "Non è vero, e siamo in ritardo."
Mi prende sottobraccio ed è come se tornassimo indietro di dieci anni. Siamo sempre noi. Io e Daffodil. Le stesse.

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