Dieci

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Appollaiata dietro la scrivania, rigida nel suo abito marrone privo della più piccola piega, la preside Feregotti scrutava Alina come gli inquisitori spagnoli dovevano aver scrutato i malcapitati eretici finiti nelle loro grinfie.

I suoi occhi grigi, dilatati dalle spesse lenti, la facevano somigliare più che mai a un gufo impagliato; per la prima volta, però, Alina non trovò niente da ridere in quella somiglianza. La bocca della Feregotti, dipinta con un rossetto di colore troppo acceso, era piegata nell'espressione temuta da tutti gli studenti della scuola: indecisa se essere una smorfia di biasimo o un sogghigno di felicità per la punizione che stava per venire inflitta.

Nessuno aveva mai visto la preside sorridere davvero.

Alina spostò il peso da un piede all'altro, incrociando le braccia e guardando un punto a mezz'aria fra il mento della Feregotti e il piano della scrivania. C'erano due sedie davanti a lei, ma non era stata invitata a sedersi.

"Non stare a braccia conserte, Moretti," esordì la preside. "È maleducazione."

Alina lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, poi mise le mani dietro la schiena e prese a tormentarsi le dita sudate. Le sembrò di vedere il sorriso sul volto della Feregotti allargarsi un po', come se godesse nel vederla a disagio.

Fai del tuo peggio, pensò Alina. Io starò qui come una statua, non ti darò nessuna soddisfazione.

La preside incrociò sulla scrivania le dita smaltate e prese un profondo respiro sibilante, da fumatrice incallita. "La professoressa Tacconi mi ha riferito quanto è accaduto in classe durante la sua assenza," disse, con la voce che grondava riprovazione. La Tacconi, in piedi accanto ad Alina come un gendarme, annuì vagamente; perfino lei sembrava a disagio davanti alla Feregotti.

"Sorvolando, per un momento, sull'inciviltà di mettersi tutti a fare i propri comodi non appena l'insegnante lascia per qualche minuto l'aula," proseguì la preside, senza fretta di arrivare al punto, "vorresti spiegarci per quale motivo hai picchiato una tua compagna fino a mandarla in infermeria con il naso rotto? Ho appena parlato al telefono con la madre di Morreale. Dovrà venire a prendere la figlia e portarla al pronto soccorso a fare una lastra."

Alina deglutì per scacciare il nodo spinoso che le stringeva la gola. Pensò a Debora che boccheggiava sul pavimento, con la faccia coperta di sangue, e si sentì un verme. Abbassò la testa, finché i capelli non le caddero sugli occhi. Cosa avrebbe dovuto rispondere alla Feregotti? Che Debora le aveva dato una spintarella? Che Milena le aveva detto che era una sfigata e una barbona? Niente sarebbe servito a giustificare la sua reazione. Raccontare tutta la vicenda dall'inizio, e quindi tirare in mezzo anche Noemi e Mario Amedei, era fuori discussione: sarebbe morta per l'imbarazzo e, di certo, la preside non l'avrebbe considerata un'attenuante.

"Debora ha detto delle cose che non mi sono piaciute," disse infine Alina, a voce bassa ma ferma. "Mi sono arrabbiata."

La preside attese che Alina aggiungesse altro, poi sospirò. "Si può sapere quali sarebbero state queste cose," domandò, "e perché giustificherebbero un pestaggio che avrebbe potuto causare a Morreale dei danni permanenti?"

Alina serrò le labbra e guardò fisso il piano della scrivania. Il silenzio si protrasse per un lunghissimo mezzo minuto, finché alla Feregotti fu chiaro che dal suo interrogatorio non avrebbe ricavato nulla.

"Naturalmente non si può dire altro. Non sia mai," commentò la preside, sarcastica. Alina avvertiva su di sé, senza bisogno di alzare la testa, lo sguardo fisso di quegli occhi da strige. "Hai mandato una tua compagna in ospedale, ti domando perché e sai solo biascicare due scuse senza senso, per poi restare lì con la bocca cucita. D'altro canto, Morreale non mi direbbe altro, sarebbe fare la spia, giusto? E fra tutti i vostri compagni di classe, sono sicura che non troverei nemmeno uno disposto a spiccicare parola per spiegare l'accaduto." La preside si protese dalla scrivania, con l'espressione di chi ha annusato qualcosa di sgradevole. "Questa si chiama omertà. Tu e i tuoi compagni di classe vi comportate come tanti piccoli mafiosi. 'Io non c'ero, e se c'ero dormivo'."

Alina si chiese, non per la prima volta, in quale modo la Feregotti fosse finita a fare la preside in una scuola media quando nutriva un così evidente disprezzo verso i ragazzi che la frequentavano.

"Pensavo di aver visto il peggio mezz'ora fa," proseguì imperterrita la preside, "quando la professoressa Tacconi ha scoperto il tuo compagno a contrabbandare in classe quelle disgustose riviste pornografiche; ma questo supera davvero ogni limite. Che un episodio di una simile violenza potesse verificarsi fra due ragazze, poi, non me lo sarei mai aspettato. Non mi lasci altra scelta che parlare ai tuoi genitori, domattina."

Lo stomaco di Alina sprofondò fino alle scarpe.

"Il consiglio di classe formulerà la proposta di sospensione nei tuoi confronti, e verrà data sia a te che a Morreale la possibilità di esporre i fatti che hanno condotto a questo episodio," dichiarò la Feregotti.

La mente di Alina era tornata ad essere una stanza vuota, nella quale i suoi pensieri e le parole della preside rimbalzavano allo stesso modo, inutili e senza senso. Sospesa, si ripeteva. Sospesa come un elemento problematico, sospesa come Storaro quando aveva rotto un dito a quel ragazzo di seconda A, sospesa come Mattia Ermanno, che l'anno precedente era stato beccato a spiare le ragazze nello spogliatoio ed era stato sospeso, poi bocciato e poi aveva cambiato scuola. Sospesa, sospesa, sei sospesa, ripeteva la sua testa, come un disco rotto.

La preside continuò a blaterare, la Tacconi aggiunse qualcosa (in tono più gentile, bisognava dargliene atto), ma le parole di entrambe la attraversarono come acqua in un colabrodo. Alla fine di quelle che le sembrarono ore, la Feregotti la congedò e annunciò che avrebbe telefonato ai suoi genitori — e a quelli di Saverio, convocati pure loro per la mattina successiva.

Alina immaginò l'espressione di sua madre mentre riceveva la notizia, poi quella di suo padre, e sentì i singhiozzi dibattersi nel petto come animaletti in gabbia; gli occhi bruciavano di lacrime trattenute.

Non metterti a piangere davanti alla preside! Tutto, ma non questo! Alina pensò agli Slayer che sferragliavano sul palco, a Blackie Lawless che gettava pezzi di carne marcia sul pubblico in delirio, a Ronnie James Dio che sfoderava la corna metal sul suo trono. Strizzò le palpebre, tirò su col naso, strinse i denti fino a sentire il dolore percorrere i nervi.

La Tacconi la scortò in aula. Nel frattempo era cominciata la quinta ora e la Messina, sempre puntuale come un cronometro, era già seduta alla cattedra. In classe regnava un silenzio tombale.

Appena messo piede sulla soglia, Alina si sentì trapassare da venti sguardi, che pesavano come mille. La professoressa Messina era una sfinge nel suo completo nero. Alina fece per voltare gli occhi sui suoi compagni, ma scoprì di non averne il coraggio.

Sentì una diga che iniziava a cedere dentro di lei.

"Professoressa, posso andare al bagno, per favore?" mormorò, rivolta al pavimento.

Sulle labbra della Messina sembrò affiorare un diniego secco, poi gli occhi della professoressa si soffermarono su Alina e sul suo viso di pietra apparve, solo per un momento, una luce diversa.

"Fai presto, Moretti."

Alina non attese un secondo di più; girò sui tacchi e imboccò di corsa il corridoio grigio, rimbombante dei suoi passi.

Il bagno delle ragazze era vuoto, per fortuna. Alina si chiuse con il catenaccio in uno dei cubicoli, abbassò il coperchio della tazza e sedette stringendo le gambe al petto. Prese un grande respiro tremante, schiacciò il viso sulle ginocchia e pianse amaramente.

Ho attraversato le terre selvaggeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora