Undici

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La mamma passò a prenderla a casa di nonna Brunilde alle cinque e mezza, come faceva ogni pomeriggio. Alina si accomodò sul sedile della Punto e allacciò la cintura senza dire niente. Sua madre tambureggiava con le dita sul volante, accompagnando il picchiettare della pioggia sul tettuccio. La radio era muta. Il vago odore di sigaretta testimoniava di un cedimento a quel vecchio vizio, ufficialmente abbandonato due anni prima, ma sempre incline a fare dei ritorni a sorpresa quando la mamma passava qualche momento difficile.

Alina passò le mani umide sui jeans e respirò a fondo per contrastare l'ansia che premeva sul petto; poi, scrutò da dietro le ciocche scompigliate e vide che l'espressione della mamma era un misto di apprensione, rabbia e confusione ancora peggiore di quello che si era immaginata.

La macchina iniziò a muoversi. Un paio di minuti sgocciolarono via, lentissimi.

"Posso accendere la radio?" chiese Alina.

"No, non puoi," ribatté la mamma, con un tono brusco che sembrò sorprendere lei per prima. Si schiarì la gola e ricominciò con voce più morbida. "Alina, dobbiamo parlare di quello che è successo a scuola," proseguì.

"Perché? Non hai già parlato con la preside?" ribatté Alina, scoprendosi subito arrabbiata. Aveva passato una mattinata da mandare chiunque al manicomio e voleva soltanto mettersi le cuffie e sentire musica fino al momento di andare a letto; e invece, ecco la mamma pronta a farle il terzo grado, senza nemmeno aspettare di arrivare a casa.

"Certo che ho parlato con la preside," disse la mamma, che aveva fatto una faccia esasperata davanti alla sua ostilità, ma si stava sforzando di mantenere la calma. "Ma voglio sentire il tuo punto di vista, naturalmente."

"Cosa vuoi che ti dica?" mugugnò Alina, raggomitolandosi sul sedile. "Debora mi ha fatto incazzare, le ho dato un pugno, l'ho mandata all'ospedale e adesso mi sospendono. Contenta?"

La mamma ignorò l'uso della parolaccia, che in altre situazioni le sarebbe valso un rimprovero. Sospirò a pieni polmoni, si fermò a un semaforo e si voltò verso Alina.

"Quello che voglio sapere," disse, "è perché lo hai fatto. Visto che so che mia figlia non è pazza, ci deve essere stato un motivo."

"Debora mi ha preso in giro su una cosa delle elementari, ok?" ribatté Alina. Il tono paziente della mamma la stava facendo infuriare sempre di più. "Quindi ho anche l'aggravante dei futili motivi, pensa!"

"Futili motivi e cosa delle elementari un cavolo," disse la mamma, nel sussurro teso di chi si sta trattenendo dall'alzare la voce. "È una settimana che sei sulle spine. C'entra Noemi, vero?"

Nell'udire il nome dell'amica, Alina sentì una lama di sofferenza rigirarsi dentro.

"Non c'entra proprio niente!" urlò, dimenticando ogni buon senso in un vortice di furia. "Il motivo è che Debora è una stronza, come quelle due amiche sue, e peccato che mi sono fermata e le ho dato solo un pugno, guarda, si meritava molto peggio!"

"Ma che cosa stai dicendo?" tuonò sua madre, esplodendo come un vulcano. La macchina dietro suonò il clacson per richiamare l'attenzione sul semaforo verde; la mamma imprecò, ingranò la marcia sbagliata e ripartì, facendo sobbalzare la Punto come un cavallo imbizzarrito. "Hai mandato una ragazzina all'ospedale! Ma lo sai che si può ammazzare la gente con una botta sul naso? E se sbatteva la testa mentre cascava?"

Alina piantò le gambe sul tappetino, si protese in avanti per quanto la cintura di sicurezza le consentiva e aprì la bocca per controbattere, ma la mamma le diede sulla voce. "Tutto questo senza contare, bella de casa, che domattina devo prendere io le ore non pagate per accompagnarti a scuola e sentire la preside che ti fa la ramanzina, e parlare con i genitori di quella povera deficiente di Debora, che ovviamente penseranno che sono una madre di merda e ho cresciuto una selvaggia!"

La mamma accostò con una frenata brusca e mise le quattro frecce. Era paonazza in viso e aveva gli occhi fuori dalla testa. Alina si ritrasse, senza accorgersene, verso il finestrino.

"Quindi," proseguì, "la sospensione te la becchi e stai muta. Poi questa settimana niente TV, niente soldi, niente telefono e sabato te ne resti a casa. E domani chiedi scusa a Debora."

"Neanche morta!" esclamò Alina, inorridendo. Il pensiero di quell'umiliazione era intollerabile. Tutte le altre punizioni sembravano acqua fresca al confronto.

"Ti ho detto che devi chiedere scusa, e ti conviene pure essere sincera!"

"Io non le chiedo scusa solo per farti fare bella figura!" strillò Alina, senza fiato per la rabbia. "Se mi becco la sospensione, allora tu puoi beccarti la figura della madre di merda, no? O hai troppa paura di meritartela?"

Una maschera di serietà mortale cadde sul viso della mamma, e Alina capì di aver detto qualche parola di troppo. Serrò la bocca così in fretta da far schioccare i denti.

Sua madre rimase ferma e in silenzio a guardarla. Poi chiuse gli occhi, li riaprì dopo qualche istante, strinse le mani sul volante e si girò verso la strada.

"Devi ringraziare, Alina, che quando sei nata ho giurato che non avrei mai alzato le mani su di te, perché questo era il momento che rimediavi un ceffone," disse.

Alina sentì una risposta salire alle labbra ma, in un insolito momento di ragionevolezza, decise che era meglio tacere.

"Non voglio sentire una parola finché non siamo a casa," proseguì la mamma, con una voce piatta e fredda che sembrava uscire da una catacomba. "Chiaro?" Girò la chiave nell'accensione e rimise in moto la macchina.

Alina annuì, mortificata. Si voltò dall'altra parte, premette la fronte contro il finestrino e guardò la pioggia scendere e lavare via i colori dal mondo.

Ho attraversato le terre selvaggeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora