℘ąཞɬɛ 2 - Casa

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-Jeff, ma che diavolo stai facendo?-.
Jane lo guardava attraverso la porta spalancata della cucina, con una falsa espressione di fastidio sul volto che veniva però clamorosamente tradita dal mezzo sorriso che curvava le sue labbra.
Il ragazzo, disteso sul divano con le gambe poggiate su uno sgabello, le rivolse uno sguardo interrogativo. -Uh?- mugolò, accarezzando la testa del cane che gli si era appena sdraiato addosso, con la testa premuta sul petto. La bestiola aveva le zampe piene di fango, a causa della sua imprevista corsa nelle pozzanghere che si erano generate nel giardino a seguito della recente pioggia, ed ora stava sporcando ovunque. Inclusa la felpa di Jeff che adesso, da bianca qual'era fino a pochi secondi prima, si era riempita di macchie marroni.
-Eddai, fallo scendere- continuò a borbottare Jane, avvicinandosi. Stava ancora tentando di fingersi arrabbiata, quando era chiaro che il suo volto fosse dominato da un'espressione divertita. -Guarda che disastro... A volte mi sembri un bambino, Jeff-.
Il killer sorrise, mentre afferrava il busto del cane e lo spingeva via, fino a farlo scendere dal divano. -Non guardare me, è stato lui- esordì, con ironia.
Erano ormai passati mesi dal suo arrivo in quella casa, e nonostante tutte le difficoltà che si erano presentate durante le prime settimane di convivenza sotto allo stesso tetto, Jeff era riuscito ad imparare nuovamente le basilari regole che stavano alla base di una quotidianità normale. Certo, tenere a bada i suoi istinti rappresentava per lui una lotta costante che lo sfiancava ogni giorno; ma allo stesso modo, ogni giorno traeva soddisfazione e compiacento nella pace che quella nuova vita era un grado di offrirgli.
Jane faceva in modo di somministrargli di soppiatto la cura farmacologica che il dottor Arden gli aveva prescitto, e che Natalie aveva avuto la gentilezza di consegnarle; nascondeva i farmaci un po' ovunque, frantumando le pastiglie nel cibo che lui mangiava, e mescolando i farmaci in gocce nel bicchiere da cui lui beveva.
Un equilibrato mix di antipsicotici, antidepressivi, e tranquillanti.
Era quasi certa che il ragazzo non se ne fosse mai accorto, ma Jeff pur non dicendo niente l'aveva capito già da un pezzo: e non solo perché l'aveva beccata più volte a rompere pasticche in tanti pezzettini, nascosta dietro alla porta chiusa della cucina. Sentiva su di se gli effetti collaterali di quelli che, aveva dedotto senza doverci pensare poi tanto, dovevano essere degli psicofarmaci: il suo corpo ne risentiva parecchio, in special modo nelle ore notturne. Spesso sentiva pesare sulle sue spalle una stanchezza innaturale che lo costringeva a dormire per molte più ore di quante ne avesse davvero bisogno, o percepiva una strana quanto invadente sensazione di avere la mente appannata, come gli risultasse difficile ragionare in modo lucido. E primo fra tutti, l'effetto collaterale che in lui era più evidente era il tremore alle mani: le sue dita non ne volevano sapere di stare ferme, tremavano al punto che talvolta gli risultava davvero difficile compiere un gesto semplice come reggere una forchetta.
Nonostante questo, Jeff non aveva mai detto una singola parola riguardo alla cura farmacologia alla quale, ne era certo, Jane lo stava sottoponendo; sapeva di essere un potenziale pericolo per lei e per chiunque altro incrociasse la sua vita, incluso il cane, e per questo era ben felice di lasciarsi tenere a bada dalle pastiglie.
Dopotutto, qualunque cosa stesse ingerendo ogni giorno all'ora dei pasti stava chiaramente giovando alla sua salute mentale: i suoi momenti di lucidità erano adesso nettamente maggiori a quelli in cui perdeva il lume della ragione e si ritrovava schiavo di istinti predatori che non riusciva a controllare, e anche quando questi ultimi prendevano il sopravvento era sufficente bere un bicchiere d'acqua alla quale Jane aggiungeva diverse gocce di Quietapina, per recuperare la calma necessaria a non fare del male a nessuno. O, al massimo, sfogava la rabbia su se stesso.
-Se esco a prendere qualcosa da mangiare...- continuò a dire la ragazza, con le braccia intrecciate. -Pensi che troverò la casa tutta intera al mio ritorno?-. Si fece una piccola risata sotto ai baffi, guardando il moro con tenerezza.
Lui sollevò le sopracciglia. -Ma certo- esordì. -Ti aspetto qui, come sempre-.
Jane annuì, e senza dire altro recuperò il suo mazzo di chiavi dal tavolo; per precauzione chiudeva sempre la porta d'ingresso quando si allontanava da casa anche solo per pochi minuti, nonostante fosse perfettamente conscia che se Jeff avesse voluto uscire avrebbe potuto facilmente saltare giù dalla finestra.
Salutò Dado con una carezza sulla testa e si allontanò lungo il vialetto, schivando con attenzione le pozze; quel giorno non pioveva, ma l'acqua era scesa dal cielo in modo quasi ininterrotto per i tre giorni precedenti, inzuppando ogni cosa e raffreddando notevolmente l'aria esterna che lei adesso respirava.
Jeff osservò con attenzione ogni suo passo attraverso il vetro della finestra del salotto, fino a che la figura della ragazza non scomparì dietro al muretto.
Aveva trascorso lunghi anni della sua vita in una quasi totale solitudine e non aveva mai sentito il bisogno di avere qualcuno accanto; eppure, adesso che viveva con Jane, aveva sperimentato per la prima volta quella pessima e spietata sensazione che scaturiva in lui la solitudine. E non riusciva a spiegarsi il perché di questo, non riusciva a capire come fosse possibile che la sua mente si fosse adattata così profondamente a quella nuova vita da indebolire così tanto le barriere che si era creato.
Sbuffando rumorosamente si alzò in piedi, ripetendosi che di certo non sarebbe morto se anche Jane fosse rimasta fuori qualche minuto in più rispetto al solito; dopotutto, era sempre stato in grado di prendersi cura di se stesso in completa autonomia, e non c'era motivo di pensare che adesso non fosse più in grado di farlo.
Ciondolando sulle gambe come un non-morto salì la rampa di scale che conduceva al piano superiore, il silenzio che aleggiava tra i corridoi della villetta era sia confortante che destabilizzante per lui. Sapeva che Jane odiava vederlo farsi del male da solo, tanto che più volte era finita per prenderlo a sberle quando trovava delle nuove ferite sulle sue braccia; perciò, ogni qual volta restava solo in casa, ne approfittava per sfogare le sue frustrazioni liberamente. Ne aveva bisogno, anche se non avrebbe saputo spiegarle il perché.
Si diresse nel bagno, e con un gesto deciso si sfilò di dosso la felpa che Dado aveva sporcato di fango; poi, senza fermarsi a pensare neanche un secondo, aprì l'armadietto ove teneva le lamette da barba ben nascoste sotto ad una pila di altri oggetti.
Osservò il suo torso nudo riflesso nello specchio con la piccola arma schiacciata tra i polpastrelli della mano destra che aveva già ripreso a tremare, e si fermò a riflettere solo per qualche attimo. A differenza di prima, adesso non c'era più una singola parte del suo corpo che avrebbe potuto ferire senza che Jane, prima o dopo, se ne sarebbe accorta. Erano diventati intimi più di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare, dunque oramai non aveva più senso tagliare la sua pelle in un punto anziché in un altro.
Scosse la testa con decisione ed allungò il braccio sinistro, stringendo con il pugno il bordo del lavandino; poi, con l'altra mano, iniziò a premere la lametta nella carne, incidendo ferite verticali lungo il profilo tremante dell'arto.

Into The Madness - 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora