Capitolo 32

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Scarlett's pov

Mossi la mano e la posai sulla maschera poco lontana da me, e mi fu impossibile pensare al fatto che non mi riconoscessi più: non avevo il controllo delle mie emozioni, le lacune pesavano così tanto da farmi girare la testa, e il fatto che non vedessi un'uscita da quel limbo mi terrorizzava, come quando da piccola volevo fuggire senza poi sapere in che direzione andare.
Afferrai la maschera, la osservai, quasi come se non fossi più in grado di capire quale fosse il mio vero volto, poi mi sdraiai senza tirare fuori i piedi dalla piscina, chiusi gli occhi, portai la maschera al mio petto senza mai lasciare la presa. Per quale motivo provavo tutta quella confusione? Io volevo ricordare, quindi perché la mia mente non mi dava pace? Era come se più frammenti della mia vita recuperavo, più ogni parte di me si ribellava facendomi cadere nel caos più totale. Ciò che avevo dimenticato e che stavo recuperando, valeva più della mia calma? Della mia stabilità? Ne valeva la pena? La mia razionalità urlava di no, ma il resto mi riscaldava il petto, mi faceva capire che ciò che mi aveva ferita mi aveva anche salvata, e questo mi portava a pensare a Raegan, al fatto che averla vicina mi ferisse e, allo stesso tempo, mi guarisse da ogni male, fino a farmi sentire come se fossi in grado di lottare contro qualsiasi cosa. Ma cosa mi impediva di andare da lei e viverla? Cosa mi impediva di guardarla negli occhi ed essere sincera? Cosa mi tratteneva nel cercare di prendermi cura di lei quando tornava dalle sue missioni suicide? E per quale motivo non riuscivo a guardarla per più di qualche secondo?

Sospirai e mi misi in una posizione quasi fetale, come se stessi cercando un qualche tipo di rassicurazione, conforto, senza mai trovarlo realmente.
I miei pensieri scorrevano senza mai darmi tregua, e il fatto che stessi stringendo la mia maschera al mio petto mi fece tornare in mente quelle notti che, da piccola, passai abbracciando un peluche che, in qualche modo, mi dava quell'affetto e quel conforto che non ricevevo da nessun altro.

/*****

Stringevo con forza quel peluche mentre le mie lacrime scorrevano senza sosta sul mio viso, le urla di mio padre continuavano a far fischiare le mie orecchie e i miei occhi non sembravano intenzionati ad aprirsi, quasi come se si rifiutassero di guardare lo sguardo deluso di mio padre, che mi faceva sentire piccola, insignificante, sbagliata, capace solo di fare errori. Per quale motivo dovevo andare a tutti quegli incontri? Perché dovevo sorridere e mostrare ciò che sapevo fare a sconosciuti che, ad ogni occasione, mi trattavano come una macchina? Perché non potevo fare ciò che mi piaceva o passare un po' di tempo con altre persone della mia età? Perché non potevo ricevere parole di conforto o qualche abbraccio dai miei? Cosa stavo sbagliando? Cos'altro avrei potuto fare per ricevere un po' d'amore da parte della mia famiglia? Cos'altro avrei dovuto sacrificare? Non avevo amici, non avevo un momento per me, tutto ciò che conoscevo erano le mura di casa, quelle degli studi dove mi portavano e quelli della mia scuola, quindi cos'altro potevo fare?

«Perché?» mi chiedevo fra le lacrime mentre stringevo quel peluche in cerca di conforto. Perché non potevo avere una vita simile a quella degli altri bambini? Perché i loro genitori li lasciavano fuori a divertirsi? Perché li riempivano di attenzione? Perché i miei non mi trattavano allo stesso modo? Cosa c'era di sbagliato in me? Per quale motivo mio padre non sembrava mai soddisfatto e mi urlava sempre contro senza mai provare ad ascoltarmi?
Avevo 10 anni e la mia vita era sempre stata così, un ciclo senza fine di interviste, gare a cui non ho mai voluto partecipare, con un padre ossessionato dalla fama e dal denaro e una madre che non era mai riuscita a reagire, a far ragionare quell'uomo accecato, fino a lasciarmi diventare una semplice macchina per fare soldi. Il mio unico conforto era quel peluche ormai rovinato, ma che nonostante tutto era sempre lì, ad aspettarmi, ad ascoltarmi, senza aspettarsi nulla da me.

«Domani farò tutto ciò che mi dirà, così sarà orgoglioso di me, vedrai.» gli dicevo cercando di asciugare le lacrime. E così, ogni giorno, mi alzavo e facevo tutto ciò che potevo, obbedivo a mio padre, vincevo competizioni, a volte miracolosamente, eppure non sembrava mai contento: mi chiedeva di fare di più, di smetterla di lamentarmi, di piangere, di chiedere di uscire un po', e le urla ricominciavano a riempire le mie orecchie, le lacrime a bagnare il mio viso, fino a tornare a chiudermi in quella stanza, stringendo la mia unica fonte di conforto fra le braccia.

«May We Meet Again» - {Addicted To You - Sequel}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora