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Non ascoltai quasi la cavernosa voce maschile, con il tempo avevo imparato a ignorare certe cose che diceva. Solo adesso ero riuscita a capire a che genere appartenesse, ma la mia mente era distante da essa e a malapena percepì la differenza nel sentirla fuori dalla mia testa.

La ragazza, o meglio la bambina, che stava venendo mangiata dai pesci aveva un ché di familiare. Capelli biondi, occhi rosa e un piccolo naso a patata. Al collo aveva una corta collanina nera che volteggiava lentamente nell'acqua trascinata dal peso di un ciondolo la cui forma era la metà di un cuore blu. Fu proprio essa a farmi tornare le memorie perse, come un fulmine improvviso che squarcia con forza il cielo alle tue spalle.

Dapprima mi salì un conato di vomito che non riuscii a trattenere, rimettendo sul pavimento con un immenso sforzo. I respiri si fecero sempre più esigenti e necessari per riprendermi dalle contrazioni del mio addome. Stavo espellendo una strana sostanza trasparente con al suo interno dei brillantini rosa, blu e gialli. Nel punto in cui essa colava il pavimento si incrinava come un vetro rotto.

Vidi Artemide e gli altri raggiungermi correndo mentre l'intero blocco di mura si riempiva di crepe e le grasse persone facevano a gara, spintonandosi per raggiungere il più in fretta possibile l'uscita.

«Dobbiamo andarcene!», urlò Marte. «Qui tra poco crolla tutto!»
Come per sottolineare l'importanza di non dire queste frasi, dopo aver pronunciato quelle parole il pavimento si ruppe in mille crepe e noi precipitammo nel nero abisso.

Mi sembrò di sentire l'urlo di Artemide mentre cadevamo con eccessiva velocità in quel profondo pozzo scuro, ma per quanto ne sapessi in quel momento potevano anche essere le grida di Vulcano.

L'aria sfrecciava rapida sul mio corpo in caduta libera e mi scompigliava i capelli sporchi. Non ci diedi troppo peso, ero ancora come assorta tra i miei pensieri. Adesso avevo lo stomaco vuoto e la testa molto più pesante di prima.

Alcuni ricordi che avevo rimosso mi erano tornati in mente: quel ristorante, le persone e lei. Era strano per me pensarci, quella ragazza era il mio passato e i miei errori. Prima d'ora avevo pensato a lei, mi ero ricordata alcune nostre avventure ed esperienze, ma non mi era mai tornato in mente il perché della sua scomparsa.
Semplicemente un giorno c'era e quello dopo quasi non me la ricordavo già più. Ancora adesso non la rammentavo bene, non voleva tornarmi proprio in mente il suo nome.
Avevamo entrambe dieci anni, lei ne avrebbe compiuti undici in estate e io li avrei fatti prima in primavera.

Non mi era mai piaciuta la confusione, troppe persone in un posto chiuso, ma il cibo nauseabondo era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Non si trattava esattamente di claustrofobia e neanche di agoraphobia, ma più del loro insieme. Quel giorno avevo perso il controllo e avevo accoltellato il mio Amico di Primo grado.

Gli Amici di Primo grado sono quelle persone che sono care al Protagonista. Non per forza essi sono loro amici, possono anche essere loro familiari o amanti, l'importante è che siano davvero speciali per la persona in questione. La loro è una morte orribile. Solitamente sfruttata dal mostro per creare nel Protagonista una sorta di reazione che gli permetterà di avere la possibilità di ucciderlo. Sono quindi agli occhi dei mostri delle semplici pedine sacrificabili.

Mi avevano poi portato in tribunale, ma essendo il Protagonista, e avendo solo dieci anni, la pena ricadde sui miei genitori. Io fui mandata a fare delle sedute da uno psichiatra e, come avevo già accennato, ancora oggi ho un appuntamento al mese con lui.

Mi diedero qualche psicofarmaco, tante pillole, compresse rettangolari o rotonde solitamente blu, rosa o gialle. Mi sembra si chiamino Ari-... qualcosa, ma in questo momento la mia testa è troppo piena di informazioni per ricordarmi quel nome. Avevo degli orari in cui prenderle e non dovevo assolutamente saltarli o prendere troppe dosi insieme.

I miei genitori appena poterono mi lasciarono la casa e se ne andarono altrove. In questo mondo non abbiamo molte regole, tutti possono fare quello che vogliono a condizione che paghino; quindi, finché loro mi mandano una busta con i soldi ogni mese lo Stato non ha di che controbattere nonostante la mia età.

Da allora erano passati circa sette anni, da quello che ricordavo. Avevo passato la maggior parte del tempo in una clinica e le rare volte in cui avevo avuto il permesso di uscire, se non per percorrere il tragitto da lì alla scuola, ero andata a casa dei miei nonni. Loro erano stati gli unici ad essermi rimasti vicini quando tutti se n'erano andati.

Solo da poco avevo recuperato i contatti con il resto della famiglia Nientaltro, in occasione del loro funerale. Entrambi erano morti di malattia, un malanno che si fa chiamare con il nome di vecchiaia. Ho già espresso il mio punto di vista su questo tipo di morte, e continuo a considerarlo al pari di quello del mio Amico di Primo grado.

I medicinali dovevano aver svolto troppo il loro lavoro o forse era stato lo psichiatra, sta di fatto che avevo rimosso quell'incidente e non mi ero mai chiesta come fossi finita in quella situazione. Una pillola dopo l'altra, un'iniezione e qualche assurda cura psicologica erano riusciti ad alterarmi il cervello. Sì, forse erano stati i farmaci, o forse ero stata io che non li avevo presi.

Le persone che me li davano avevano delle strane espressioni, quasi non umane o false. Non mi ero fidata di loro e avevo sputato nel water più medicinali che potevo, altri li avevo nascosti o buttati dalla finestra appena loro si giravano.

Ero stata in quella clinica per molto tempo e poi tutto d'un tratto mi ero ritrovata sola in una grande casa vuota, con in mano una busta di soldi e un foglio con le diagnosi mediche.

Ricordo il mio riflesso allo specchio appeso all'entrata. Ero alta, pallida e magra. Mi ero sentita strana, come se quel corpo non mi appartenesse e solo in quel momento avevo realizzato di essere cresciuta. Le mani erano troppo grandi per essere le mie. Avevo provato ad allontanarle e avvicinarle lentamente al viso, avendo l'orrenda sensazione di essere rinchiusa in un contenitore di carne e ossa estranee.

Ero io ad essere sbagliata o era il mondo in cui mi trovavo a esserlo?
Avevo alzato gli occhi e mi ero ritrovata a guardare un'altra persona, ma studiandola mi ero accorta che quello era solo il mio riflesso. Quell'apatica espressione accompagna ancora il mio viso e non mi dà mai tregua.

Notai di non riuscire a provare più niente; non avevo provato assolutamente niente nel vedere morto il mio Amico di Primo grado. L'unica cosa che mi destabilizzò fu questa: mi spaventò il non aver sentito nulla.

Marte mi strattonò per il vestito, evitando che andassi a sbattere contro un pezzo di marmo della fontana che cadeva con noi. Ritornai così cosciente della situazione che era attualmente in atto e sgranai gli occhi.

«Stiamo per morire?», domandai più a me stessa che a qualcuno in particolare.
«Credo di sì!», giudicò Artemide, qualche metro sopra di me.

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