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La luce che illuminava quel luogo mi faceva quasi girare la testa e più volte mi ero vista costretta a sbattere ripetutamente le palpebre.

Solo Vulcano pareva sapere dove fossimo; io, come gli altri, non ne avevo la più pallida idea. Di una cosa però ero certa: non sarei mai andata a vivere in un posto del genere, o almeno non dopo aver visto l'espressione di paura e preoccupazione sul volto di quel ragazzo.

«D'accordo, allora se conosci il posto ci farai da guida.», ordinò Marte senza minimamente badare al tono di voce usato poco prima da Vulcano. «Andiamo.»
L'uomo si diresse spedito verso la vecchia casa, come se non ci fosse più nulla da chiarire.

«Perché dobbiamo entrare proprio lì?», domandai irritata dal suo comportamento nei confronti di un compagno in difficoltà. Se poco prima avevo usato "premuroso" come aggettivo per descriverlo adesso lo avrei definito "opportunista ed egocentrico".

«Perché è palese che chi ci ha messo qui voglia che ci entriamo, e poi non c'è altro luogo dove andare.», spiegò.

Effettivamente, girandomi, notai che andando con lo sguardo oltre agli alberi del giardino non c'era più niente se non il semplice bianco accecante. Artemide, notando la mia nota di disappunto e il fare esitante di Vulcano, ci prese per mano, trascinandoci verso la porta che Marte aveva appena sfondato con un calcio.

Mentre salivamo i tre gradini di legno che portavano al parapetto dalla villetta vidi dei piccoli fiorellini blu che sbucavano fuori da una vecchia asse di legno. Mi sorpresi di aver trovato un colore normale in quel posto sbiadito.
L'unica altra tonalità di colore normale presente era il giallo dei tarassachi che crescevano vicino agli alberi giallognoli e l'azzurro scuro delle violette nei vasi. Solo quei fiori sembravano avere un vero colore in quella strana dimensione, ma non ne compresi il motivo.

Entrammo anche noi in quella polverosa e decrepita casa. La porta si trovava adesso a terra, scardinata dal muro. Quando Marte l'aveva colpita era venuta via subito, ma non mi sarei sorpresa se fosse già stata aperta.

Si alzò un polverone che raggiunse quasi le scale di legno e si depositò sul lungo pavimento con sfumature diverse di grigio. Gli interni della casa erano scuri e lo spesso strato di polvere rivelava delle scure impronte di suole delle scarpe che salivano sulle scale.
Sentii Vulcano vicino a me deglutire rumorosamente. «Fate attenzione.», disse con una nota di paura.

Alla mia sinistra intravedevo una piccola cucina dalle pareti grigio spento. Appeso ad una di esse c'era uno strofinaccio dai bordi blu e con una fantasia di ghirigori giallo chiaro. Il resto della stanza era però o grigio o dai colori che i miei occhi ingannandomi mi facevano vedere.

Alla mia destra mi affacciai in una saletta usata per prendere il tè. Su di un tavolino grigio stavano appoggiate tre tazzine di porcellana bianca, di cui una rotta, e le altre piene di uno strano liquido che dava l'impressione di avere troppa consistenza. Il resto della sala era solo un ammasso di polvere e mobili logori.

Proseguimmo quindi salendo piano sulle scale, come quelle impronte sembravano volere che facessimo. Se c'era davvero qualcuno al piano di sopra, e se era lui a spaventare così tanto Vulcano, allora non volevo che mi trovasse.

Indossavo ancora un sandalo solo, dato che l'altro era stato fatto a pezzi e sputacchiato dal coccodrillo. La sensazione del mio piede nudo sulla spessa polvere era terribilmente fastidiosa, quasi quanto quella che si prova con la normale sabbia. A eccezione del fatto che questa era morbida e sporca. Mi sforzai molto per non mettermi a salire le scale saltando su un piede solo, il tutto solo per evitare che qualcuno potesse sentirmi.

Al piano superiore le impronte sul pavimento si fermavano e proseguivano con macchie nere sulla parete e sul soffitto, come se quella cosa ci si fosse arrampicata sopra.
Lì c'erano tre lunghi corridoi che sembravano non avere fine e che ignoravano completamente la fisica delle dimensioni della casa.

Uno era quello dove le orme si dirigevano, ed era anche quello più sporco. Pareva fosse stato scavato nella parete. Per terra le assi erano state strappate dal terreno e sotto di esse si vedeva della terra. Il corridoio centrale e quello a destra erano invece apparentemente normali.

«Dividiamoci.», propose Marte.
«Pessima idea.», feci notare.
«È proprio perché per te è una pessima idea che lo faremo.», spiegò.

Aprii la bocca per ribattere che i miei consigli si erano più volte dimostrati utili, ma lui continuò a parlare come se niente fosse. «Tranquilla, da solo con te non ci starò mai.»
«Io vado con Ester!», si candidò subito Artemide.

«No, tu andrai con me al centro.», ordinò Marte. «Il gatto e l'essere inutile invece andranno a destra.»
«Non sono un gatto!», esclamai irritata.
«No, lui è il gatto.», disse indicando Vulcano. «Tu sei inutile.»

Adesso ero sicuramente più offesa di prima, ma ero felice che non mi avesse ancora assegnato un'animale. Non volevo venire colpita da un sedativo e risvegliarmi con un'orribile tatuaggio su tutto il corpo.

Vidi Vulcano che armeggiava con qualcosa che era legato alla sua cintura, sembrava una piccola sacchetta arancione da cui estrasse quattro grandi torce. Rimasi sorpresa nel vedere uscire una cosa così grande da un posto così piccolo e stretto. Era impossibile che quelle torce fossero sempre state lì, ed era impossibile anche che fossero uscite da quel sacchettino.

Consegnò una torcia a testa. Funzionavano bene tutte a eccezione la mia, la cui luce era più flebile.
Ci separammo nelle coppie che Marte aveva scelto ed entrammo nelle buie gallerie. Io e Vulcano camminavamo a poca distanza l'uno dall'altro e puntavamo convulsamente la torcia verso tutto ciò che si trovava di fronte e dietro a noi.

«Ehm, allora, il tuo animale è il gatto?», domandai per alleggerire la tensione che si stava formando.
«Cosa?», borbottò come risvegliandosi solo adesso. «Oh, no, il mio tatuaggio è un leone.»

«Ah, capisco.», dissi puntando gli occhi sulla sua spalla, dove sapevo di aver visto il tatuaggio dell'animale.
Lui non ci fece caso e continuò a guardarsi in giro come se da un momento all'altro potesse sbucare fuori dall'ombra qualcosa di mostruoso.

«Di che cosa hai paura?», chiesi con curiosità.
«Io non ho paura!», esclamò lui immediatamente.
Lo guardai in quel semi buio alzando il sopracciglio destro in una strana espressione che indicava, con tutto il sarcasmo possibile, quanto gli credessi.
Lui mi ignorò e accelerò il passo.

Ormai sembravano essere passati una decina di minuti e ancora non avevamo raggiunto la fine di quella galleria.
Il corridoio non sembrava cambiare, non c'erano curve o oggetti appesi alle pareti. Davanti a noi c'era la semplice e pura oscurità rotta solo dalle luci delle nostre torce. Le gambe mi dolevano e rallentai la camminata fino a fermarmi completamente. Anche Vulcano si fermò e insieme ci sedemmo a terra sul duro pavimento.

«È la mia vecchia casa.», rivelò lui guardando assorto nel vuoto.
«È una brutta cosa?», domandai.
«Terribile.», affermò.

Le torce illuminarono il soffitto e per un attimo mi parve di vedere un occhio bianco che ci osservava. Un brivido mi attraversò la schiena al ricordo di tutti quegli occhi che ci fissavano nella cupola.

«Hai detto che era andata distrutta, vero?», continuai sperando di non sembrare troppo invadente.
«Sì, l'aveva distrutta mia... mia madre...», raccontò.

«Come ha fatto tua madre a distruggere una casa così grande?», domandai sorpresa, senza rendermi conto di cosa potesse provare Vulcano nel rivelare a me quelle informazioni così personali.
«È...», iniziò a dire esitando e poi prendendo coraggio proseguì dicendo. «Lei era un mostro».

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