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Non ricordo bene cosa accadde durante quella caduta, so solo che a un certo punto mi colpì qualcosa di duro e persi i sensi. Passò forse qualche minuto, con certezza non saprei dire quanto fosse esattamente, quando ripresi conoscenza ero sdraiata sul caldo asfalto. Alcune schegge di vetro mi erano finite addosso, ma complessivamente stavo bene. Come era possibile?

Mi guardai attorno e notai la macchina schiacciata al suolo a pochi passi da me. Cercai di alzarmi tastando il terreno ruvido della strada con i palmi delle mani. La testa mi girava e il braccio destro, che aveva subito l'impatto della caduta, mi doleva. Le ginocchia si erano sbucciate, come pure le nocche della mano che avevano preso una leggera sfumatura rosa scuro.
Ogni cosa intorno a me era confusa.
Sentii un fischio nell'orecchio destro, così lo toccai e mi ritrovai con la punta delle dita sporche di sangue. Durante la caduta avevo probabilmente colpito con quel lato della testa il duro suolo.

Stavo ancora registrando il fatto quando sentii un acuto bruciore alla spalla. La osservai, in quel punto della maglietta c'era un piccolo buco da cui si disperdeva un fine rivolo di vapore. All'interno di quel cerchietto la pelle aveva preso ad arrossarsi.
Vidi delle gocce cadere sull'asfalto vicino a me. Alzai lo sguardo al cielo accorgendomi che le astronavi si stavano allontanando e al loro posto si ergeva minacciosa una grande nuvola verdastra.

La nuvola in questione, avvicinandosi, perdeva un liquido che sembrava corrodere tutto ciò che si trovava sul suo cammino. La sua potenza distruttiva era spaventosa. Se il suolo non fosse stato composto da tutti quegli strati, e si fosse trovato molto vicino alla nuvola, allora non avremmo avuto più niente su cui poggiare i piedi.

Mi guardai freneticamente intorno cercando un luogo che avrebbe retto a quella immensa forza distruttiva.
Le gocce d'acido però non sembravano voler aspettare una mia decisione e presero ad aumentare. C'era persino un punto proprio al centro della nuvola dove pareva essersi formato un gigantesco getto di quel liquido, e al cui interno non era possibile intravedere più niente.
L'acido aveva ormai raggiunto la macchina rossa e il cadavere dell'uomo veniva freneticamente bucherellato e scavato nel profondo da quella vorace pioggia.

Afferrai a fatica un pesante tombino trovato lì a terra e me lo misi sopra la testa per proteggermi dalle gocce che cadevano. Presi a correre verso un palazzo lì vicino, che pareva essere la mia unica via di salvezza visibile.
Lo raggiunsi appena in tempo e osservai la nuvola che velocemente mi passava sopra e continuava imperterrita verso la sua strada di distruzione. Dal soffitto presero a gocciolare i residui del suo passaggio che, cadendo a terra, corrosero alcune parti del pavimento.

Quella era la nuvola Grinch, da me soprannominata Lercy a causa dell'odore di putrido che si portava dietro. Il nome originale gli era stato assegnato dal suo stesso creatore, il Dottor Conium. Il progetto iniziale prevedeva una consegna dei regali di Natale direttamente dal cielo, ma qualcosa era andato storto e aveva iniziato a far piovere acido e a girare liberamente sulle città. Per la vergogna, Conium, si era ritirato dal campo scientifico e adesso si vocifera che coltivi fragole in una località sperduta in mezzo al mare.

Raggiunsi la conclusione che rimanere sotto quella tettoia non fosse una buona idea, l'acido avrebbe potuto gocciolarmi in testa e rischiare di farmi davvero molto male. Così decisi che la scelta migliore era di uscire da lì il prima possibile.
Appena messo un piede fuori sull'erba, ormai tramutata in semplice poltiglia nera e fumante, notai che qualcosa mi stava osservando.
Mi girai e solo ora vidi il corpo di Federica privo di sensi, accasciato sul muro dell'interno del palazzo. Un uomo si trovava appena sopra di esso, appoggiato alla colonna. Tra le mani si rigirava un lungo bastone con un teschio al posto del manico.

Era alto sì e no un metro e novanta, dalla carnagione pallida e lunghi capelli biondi. I suoi occhi di un verde così accecante da risultare finto mi stavano scrutando. Indossava una lunga giacca rossa in stile vittoriano e dei pantaloni neri dall'aspetto pesante. Doveva avere all'incirca trent'anni, ma con quei vestiti dai risvolti in pizzo e le scarpe con il tacco dava l'impressione di essere molto più giovane.
Restammo a fissarci per un po' negli occhi, io ricambiavo il suo sguardo curioso con uno molto infastidito.

«Chi sei?», domandai infrangendo quel silenzio.
«Chiunque tu voglia.», disse lui con un sorriso sulle labbra.

Da sempre provo un forte odio verso le persone che credono di poter essere chiunque. La mia voce nella testa mi propose di trovare qualche modo per ribattere e rivoltare la situazione.

«Sei una barretta di cioccolato che cammina?», chiesi allora con molto più sarcasmo di quanto mi sarei potuta aspettare da me.
«Se è ciò che vuoi allora lo sarò.», rispose lui, sistemandosi il cappello a cilindro sulla testa.

Non riuscivo a capire se quell'uomo fosse stupido o se semplicemente si divertisse a infastidirmi. L'avevo riconosciuto nel momento stesso in cui mi ero sentita il suo sguardo addosso: era il mio stalker.
Alzai gli occhi al cielo, ma trovai solo un soffitto particolarmente rovinato a bloccarmi la vista.

«Cosa ci fai qui?», chiesi irritandomi maggiormente.
«Ho salvato il tuo amichetto», rivelò lui, con un tono di ovvietà.

Pensai che, nessuno in questo mondo fa qualcosa per qualcuno senza voler niente in cambio, e soprattutto se rischia di rimetterci lui stesso la vita.
In più non ero proprio sicura che Federica fosse ancora viva, ma sicuramente c'era almeno una possibilità.

«Senti, ho di meglio da fare», lo liquidai scocciata. «quindi, anche se ti dispiace, vorrei sapere cosa vuoi da me. E, se pure tu vuoi uccidermi, ti conviene prendere il numerino e metterti in fila.»

«Se la cosa che ti preme di più è andare nel tuo bunker a leggere sempre gli stessi libri, allora sono più importante io.», detto questo si fermò un attimo a guardarmi.

È incredibile come movimentata sia la mia vita, un attimo prima sto correndo nel mezzo di una pioggia di acido sperando di non inciampare, e un attimo dopo una persona che mi osserva da mesi senza neanche presentarsi mi blocca la strada perché ha trovato il coraggio di dichiararsi.

«E comunque, io sono già in fila da un po'», concluse la frase alzando un fogliettino con il numero quattrocento.

Tirai fuori dalla piccola tasca dei pantaloni il mio diciassettesimo taccuino, dove tenevo il conto del numero dei mostri che tentavano di uccidermi ogni anno. Era piccolo e azzurro, e la carta ruvida e giallastra quasi si spezzava al tocco. L'avevo comprato durante una vacanza in cui avevo visitato la fabbrica della carta con una mia cara amica. Ormai era da tempo che non la sentivo più, ma sospettavo che fosse sparita per un preciso motivo.

Non ero del tutto certa dell'idea che i mostri avessero un vero e proprio ordine da rispettare per attaccarmi, ma se esisteva realmente ciò comportava l'esistenza di una fine. «Secondo i miei calcoli, aggiungendo gli alieni, e se vogliamo considerare la nuvola... Siamo al trecento novantuno. Mi spiace, non è ancora il tuo turno.»

«Lo so», scosse la testa. «Sono solo venuto a invitarti a casa mia per la cena. Sai, la mia cucina è buona da morire.»
«Licantropo o vampiro?», domandai con un profondo sospiro di rassegnazione.

«Cannibale», mi rispose esitando, quasi non aspettandosi quella reazione così avventata da parte mia.

Avrei potuto gettarmi in una lunga spiegazione del perché, in quanto mostro, non potesse essere considerato cannibale; ma questo avrebbe solo prolungato la nostra conversazione, e si sarebbe probabilmente conclusa con la mia morte.
«Credo che declinerò il tuo invito.», lo informai.

«Comprendo, ma sappi che io ti aspetterò comunque. Via Della Disperazione, numero 13. Al secondo piano, ricordatelo.», detto questo si scostò dalla colonna, uscì dalla tettoia gocciolante e proseguì sulla strada principale verso il luogo dove ero arrivata.

Canticchiava una strana e inquietante canzoncina, tenendo il tempo con il bastone. Sembrava divertirsi nel farlo, quasi ci provasse gusto nel rompere il silenzio che si era creato in quella grande e solitaria strada.
Era una melodia che possedeva un non so ché di inquietante, nonostante la stesse canticchiando fra i denti e a tratti iniziasse anche a fischiettarla.
I suoi passi riecheggiarono per un po' sul nero asfalto prima che potesse totalmente sparire dalla mia vista.

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