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Mi ero ufficialmente messa nei pasticci da sola. Non sapevo come spiegare al piccolo esercito che avevo davanti che io non ero capace di combattere.

Nel tempo che rimaneva prima dello scontro avevano costruito una specie di barricata fatta con delle rocce trovate tra le rovine. Il campo era illuminato da grosse torce, ma anche senza di esse la luce della luna avrebbe fornito il necessario per vedere.

Scoprii che tra quelle persone c'era un bravo architetto che aveva magnificamente diretto le operazioni per la costruzione del muro che ci avrebbe diviso dai mostri. Questa piccola muraglia aveva due strane porte ai lati, che sarebbero state sigillate una volta che le nostre truppe fossero uscite all'esterno.

Il piano da me orchestrato era semplice. L'elicottero avrebbe prima bombardato i nemici facendoli arretrare, poi due gruppi sarebbero usciti e gli altri avrebbero fornito supporto da dentro le mura. Artemide sarebbe dovuta stare all'interno della barricata e tirare con l'arco, ma aveva deciso di mettersi alla testa del secondo gruppo per fornirmi supporto là fuori.

Vulcano fu messo quindi al suo posto e costretto da Anubi a non gettarsi troppo nella mischia. Il dottore sarebbe rimasto nelle retrovie per aspettare i feriti da guarire al più presto, o almeno ciò che gli sarebbe arrivato di essi.

Thor, nonostante la sua grave ferita insisteva a voler partecipare alla guerra contro quelli da lui definiti "Bastardi in costume", e fu quindi messo nel gruppo di supporto più agguerrito.
Eravamo un totale di quarantadue persone e un cane, e avremmo dovuto affrontare probabilmente l'inferno in persona.

Strinsi a me Xeròbio, la spada di cristallo che era appartenuta al precedente Protagonista e che si trovava adesso sottoforma di collana. Non avevo idea di come avessi fatto a riportarla a quello stato, so solo che desideravo così tanto non doverla usare che si era improvvisamente rimpicciolita e trasformata in un pendaglio.

Adesso però ero costretta a combattere con un'altra spada meno scintillante e pericolosa, ma anche molto più fragile di quella. Valutai più volte l'opzione di riportare Xeròbio alla sua forma più utile e alla fine decisi che ci avrei provato solo in caso di vero pericolo.

Per smaltire l'ansia che mi attanagliava le viscere all'idea di star per morire pensai al perché quest'arma avesse un nome così strano. Xeròbio, da quello che avevo appreso cercando la parola sul computer del campo, è un aggettivo usato per descrivere un luogo molto arido, quindi scarso di acqua; ma quel lucente cristallo mi ricordava proprio la superficie acquosa di una limpida sorgente. Scossi la testa e mi dissi che probabilmente si trattava di un ossimoro o qualcosa del genere. Qualcuno doveva semplicemente averlo trovato divertente.

«Mancano venti minuti!», urlò una voce femminile dalle retrovie. Si trattava di Ebisu che stava posizionata sulla porta d'ingresso del tempio, osservando il piccolo orologio che teneva tra le mani.

Ci avvicinammo al muro, e potei così sentire gli strani rumori e versi che provenivano in lontananza dall'altro lato. Mi voltai verso il gruppo che stava appena dietro di me. Mi avevano assegnato tredici persone per l'attacco.

I due gemelli che il giorno prima avevo visto giocare nella palestra si tenevano adesso le mani tremanti per darsi forza l'uno con l'altro. Un uomo sulla trentina con una benda sull'occhio sinistro stava ripulendo il proprio gigantesco fucile nero con uno straccio sporco.

Una donna minuta dai rigidi lineamenti era intenta a scrivere qualcosa che assomigliava vagamente a un testamento su un lungo pezzo di carta igienica. Quattro ragazzi punk armati fino ai denti e con più piercing che tatuaggi stavano bevendo delle lattine di birra mentre canticchiavano nervosamente vecchie canzoni rock.

C'era anche un emo che guardava distrattamente il cielo e si grattava via lo smalto nero dalle unghie, ma non avrei saputo dire a che sesso appartenesse. E altri quattro individui sul punto di una crisi isterica, con tendenze suicide e con le lacrime agli occhi. Questi ultimi speravano forse di impietosire qualcuno e convincerlo a dargli il proprio posto nelle retrovie, ma senza alcun successo.

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