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«Non possiamo uscire qui!», provai a spiegare ai ragazzi. «Si sta tenendo un incontro tra mostri, ci uccideranno a vista.»
«E allora cosa facciamo?», chiese in lacrime quello che avevo appreso si chiamasse Karlos.

Eravamo al primo piano, e da fuori si potevano sentire le voci di altri mostri che chiacchieravano e grugnivano in modo spaventoso. Evidentemente l'inconveniente del drago liberato al piano terra era stato risolto, rimediando anche un grande rettile per cena.

«Perché non chiediamo al ratto?», propose Rebecca.
«Non sono un ratto! Sono un topo.», ribatté il topolino bianco dell'ascensore.

«Stessa cosa.»
«No, Dario, c'è una grande differenza tra ratto e topo.», insistette Karlos.
«Il punto non è questo! Dove possiamo andare ora?», urlò in preda al panico la ragazza. «Adesso che Richard è morto chi ci difenderà? Moriremo tutti!»

Li osservai. Rebecca aveva dei lunghi capelli biondi, era vestita in modo molto appariscente, diciamo quasi trasparente, ed era un'Antipatica.
Karlos invece era un grassoccio ragazzo dai capelli rossi e gli occhiali. Anche senza bisogno di una conferma si poteva dedurre essere un'Aiutante.

Gli Aiutanti sono quelle persone che seguono come cagnolini i Palestrati. Sono molto ingenui e buoni, ed eseguono sempre gli ordini che gli vengono dati. Di solito muoiono suicidi per il senso di colpa di non essere riusciti a salvare qualcuno, altre volte invece ci provano e muoiono.

I Palestrati invece sono una specie di fusione tra uno Sportivo e uno Stupido, di solito muoiono proprio per gli stessi motivi.

Da quello che potevo intuire, Richard, era un Palestrato, e ora che era morto la loro sicurezza era sparita.
Quella sera avevano avuto la brillante idea di partire per un'avventura per consolidare la loro amicizia, o cose del genere. Leggendo su un giornale avevano appreso dell'esistenza di questo hotel, e dopo aver avvisato la polizia della presenza di mostri al suo interno si erano avventurati con lo scopo di dare il tutto alle fiamme.
Qualcosa doveva essere andato storto nel piano, perché già due di loro avevano perso la vita e i sopravvissuti si trovavano nel panico più completo.

Una voce nella mia testa mi ricordò come solo io potessi risolvere quella brutta situazione senza rimanerci secca. Mi rivolsi al topolino che pareva essere l'unico con cui si potesse ragionare in quel posto diventato improvvisamente molto più stretto.

«Come facciamo a uscire?»
«Dovete scegliere la porta e dire il numero ad alta voce.», rispose l'animaletto.

«No, non intendo questo. Sto chiedendo come facciamo a uscire fuori, all'aria aperta.», riformulai.
«Capisco, dovete salire al quarto piano.», spiegò lui.

Non so perché mi fidassi tanto di quel piccolo animale, ma confidavo nel fatto che se fino a ora non ci aveva fatto niente allora non l'avrebbe mai fatto.
Premetti il pulsante e l'ascensore prese a salire. Una volta che si fu fermato, mi resi conto che il numero uno sopra la porta non era più illuminato.

«Qui c'è solo una porta.», rispose il topolino come se mi avesse letto nel pensiero.
«Ok», dissi. «due.»

La porta si aprì mostrando il grande giardino di una serra. Uscimmo tutti dall'ascensore ritrovandoci così fuori all'aria fredda della sera.
«Dov'è l'uscita?», scrutò, Rebecca.

Io mi girai per chiedere spiegazioni al topolino, ma lui aveva già richiuso le porte. Cercai il pulsante per richiamare l'ascensore, ma scoprii che si trovava troppo in alto anche per una come me.

«Forse se andiamo avanti troveremo delle scale o qualcosa del genere», intimò Karlos, speranzoso.

Ci avviammo verso l'interno del giardino su quel largo terrazzo. Mi fermai davanti a una lunga scalinata di marmo grigio per vedere meglio il luogo in cui ci stavamo addentrando. Lì poco distante si trovava una grande fontana spenta, anch'essa di marmo. All'interno di essa potevo vedere dell'acqua putrida in cui crescevano ninfee e altre piante simili.

A quanto pareva era ancora notte, e le stelle erano appena visibili in mezzo ai rami delle piante. I rampicanti verdi ricoprivano le travi di ferro che facevano da soffitto. Il terrazzo si affacciava verso il bosco nel quale mi ero trovata a correre neanche poco tempo prima.

Iniziavo ad avere davvero freddo con quel vestito ancora umido addosso. La differenza di temperatura tra l'interno dell'hotel e quella serra iniziava a farsi sentire. Dario si era richiuso il giubbotto nero, nascondendo così la sua pelle nuda che adesso tremava leggermente. Rebecca non poteva fare la stessa cosa con i suoi abiti e allora sfoggiava delle occhiatacce accusatorie al ragazzo nella speranza che le desse l'indumento. Karlos aveva invece addosso una camicetta a quadri e si stringeva tra le braccia per darsi calore. Ogni tanto alzava il braccio per tirarsi su gli occhiali da vista che, troppo larghi, gli cadevano giù dal naso.

Salendo la lunga scalinata passammo accanto a un grande e bellissimo fiore giallo, sicuramente vincitore di almeno una ventina di premi. Dallo stelo teso di quell'immenso fiore sbocciavano altri piccoli fiorellini gialli simili ad esso, che davano l'impressione di fungere come lunghe dita per quella pianta. Lo superai come se niente fosse, non mi importava molto dei fiori in quel momento.

Gli altri mi seguivano stando il più vicino possibile per paura di rimanere soli. Con la coda dell'occhio vidi che Dario cercava di baciare Rebecca, ma lei ancora arrabbiata lo scansò e mi venne ancora più vicina. Alzai lo sguardo al cielo in un gesto di esasperazione, per poi puntarlo sugli scalini rovinati sotto ai miei piedi. Entro l'alba avrei dovuto sorbirmi la discussione su tutti i problemi amorosi della ragazza, e probabilmente mi avrebbe anche chiesto un modo efficace per risolverli.

«Chi osa fare del male alla mia Frufrù!», tuonò una voce.

Sollevai lo sguardo verso la cima della scalinata e vidi lì in piedi la donna che aveva appena parlato. Stava fulminando ferocemente con lo sguardo qualcuno dietro di me. Girandomi scoprii che si trattava di Dario, che stava tenendo con una mano un coltellino e con l'altra un piccolo fiore giallo. Intuii che probabilmente aveva avuto la stupida idea di tagliare un fiorellino per regalarlo a Rebecca nella speranza che lei lo perdonasse.

«TU!», urlò la signora indicando il ragazzo. «MORIRAI PER QUESTO!»
«Ho solo preso un fiore», cercò di spiegare lui. «Calmati, vecchia.»
«TU HAI FERITO LA MIA FRUFRÙ!», gridò la donna.

Ci mancava solo una pazza che dava il nome alle sue piante e le trattava come persone, pensai portando una mano a coprirmi il viso. Non che non fossero esseri viventi, certo, ma non bisognerebbe mai trattare come una persona ciò che ovviamente non lo è.
A volte nella sala d'attesa dello studio del mio psichiatra mi capita di incontrare buffi soggetti, uno di questi è un certo Jason. Lui ha la passione di collezionare bambole, a volte le fabbrica anche, ma perlopiù ci parla. Tratta le sue bambole come se fossero persone vere, intrattiene conversazioni con loro, gli cambia i vestiti e le porta a fare lunghe camminate per la città.

Non so quanto questo suo comportamento gli faccia bene, ma so per certo che tra tutte le persone che ho incontrato in quel luogo lui è quella più socievole. Tralasciando ovviamente i suoi scatti d'ira e i momenti di silenzio durante il quale ascolta ciò che le bambole gli stanno dicendo. La sua creazione preferita si chiama Mr. D'Arby, e spesso durante la sua seduta la lascia in sala d'attesa con me costringendomi a tenerle compagnia.

Con quella bambola ho avuto discussioni così profonde che se potesse davvero parlare si asterrebbe dal farlo per quello che ha sentito.
Ma abbandoniamo per un attimo i miei pensieri e ritorniamo alla delirante situazione presente.

«Sono sicuro che il mio amico non volesse fare del male alla sua pianta, ma la prego di calmarsi adesso.», cercò di convincerla Karlos. «Risolveremo questa faccenda nel modo giusto e qui non si farà male nessuno.»

«Sarà risolta nel modo giusto solo quando avrete tutti pagato con la vita!», disse risoluta la donna.
E prima che ce ne rendessimo conto eravamo già tutti morti.

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