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Marte aveva dovuto allontanare la sigaretta dalla bocca per poter dire quelle parole, e a quanto pareva questo lo aveva particolarmente irritato.
La ragazza invece sembrava molto felice di aver trovato subito la persona che stava cercando. Vulcano alzò la testa verso l'uomo e Artemide sembrò ridestarsi solo in quel momento con un sussulto. Io mi voltai semplicemente verso la figura con la sigaretta e la osservai in cerca di risposte.

«Non si può fumare qui dentro.», rimproverò l'infermiera non appena ebbe notato l'oggetto che stava usando Marte. «Porterebbe molte energie negative in questo luogo di pace.»
«Adesso la spengo.», si scusò lui buttandola a terra e pestandola con il piede.

Lei strabuzzò gli occhi e fu tentata di dirgli qualcosa, ma, dopo aver visto le pistole che teneva l'uomo sui fianchi e l'arco che stringeva in mano Vulcano si limitò semplicemente a dire: «Mi segua da questa parte e faccia attenzione a non spargere troppa negatività, lei ne è pieno.»

L'infermiera fece un giro su sé stessa facendo così muovere per la stanza i lunghi capelli rosa con delle sfumature bianche. Davanti agli occhi leggermente arrossati e di un colore blu elettrico indossava un grosso paio di occhiali con la montatura arancione e i brillantini. Da sotto il camice bianco le spuntava una gonna arancione a righe verdi e un paio di grossi sandali con la zeppa ricoperti di fiorellini colorati.

Noi, indecisi su cosa fare, li seguimmo lungo i bianchi corridoi. La giovane infermiera lo notò, ma non commentò nulla dato che Marte non sembrava infastidito. Ci condusse davanti a una porta bianca come tutte le altre. Con l'unica differenza dell'etichetta di un numero diverso.
Aprì la porta dolcemente, essa non scricchiolò e non produsse alcun rumore fastidioso. Silenziosamente si spalancò e ci mostrò il luminoso interno della stanza.

La ragazza entrò e si avvicinò ad un piccolo letto accanto alla finestra.
«Salve, signora Spagyria. Ha visite oggi.», parlò in un tono dolce, rivolta alla persona sdraiata sul letto.

Nessuno le rispose e lei si allontanò lentamente da quella figura per tornare da noi. L'unico rumore udibile in quella stanza era il regolare bip di un elettrocardiogramma.
L'Esperto d'armi si spostò sulla porta, come per nasconderci la visuale dell'interno.

«È molto debole.», riportò la ragazza a Marte. «Non sappiamo per quanto ancora resisterà. Le energie negative la circondano completamente.»
«Capisco.», la liquidò lui andando verso il letto.

L'infermiera si spostò di lato e uscì dalla porta. Quando mi passò a fianco sentii un dolce profumo che mi fece venire fame. Era un forte odore di mirtillo e di terriccio bruciacchiato, che fino a ora avevo sentito solo vicino all'ormai zombie Federica.

«Fate attenzione e ricordate quando ve ne andate di lavarvi via la negatività.», ci sussurrò uscendo.

La visuale fu improvvisamente accessibile anche a noi. L'uomo si era seduto sulla seggiola vicino al letto e teneva la mano a una donna.
Lentamente e senza accorgermene mi avvicinai fino a entrare nella stanza.
Le pareti erano bianche i pavimenti azzurri. Apparentemente tutto somigliava alla sala d'aspetto, ma lì c'era un'atmosfera completamente diversa. In quel luogo mi sentivo come se fossi appena entrata in una vecchia e silenziosa biblioteca, oppure nel museo di una chiesetta in campagna. Nell'aria alleggiava la stessa sensazione di sacro rispetto.

La luce che filtrava dalla finestra dava un'aria più calda a tutta la stanza. Non si trattava certo di luce comune, no, quella che ora illuminava il lettino d'ospedale era un tipo di luce che si può trovare solo nei ricordi. Quando ripensi a certe giornate d'infanzia passate nella casa dei tuoi nonni, magari a guardare la televisione, ascoltare passate canzoni alla radio, giocare con giocattoli così vecchi che non sapevi esistessero o mangiare biscotti.

È in quei ricordi che vedi quella luce, nonostante essa non fosse realmente presente in quel momento. Tu ricordi di averla veduta sulle piastrelle del bagno, forse anche sul libro che tutto assorto stavi leggendo in quel luogo, ma la verità è che non è mai stata là.

La donna sdraiata sul letto era attaccata attraverso molti tubi a una macchina per il battito cardiaco. I suoi capelli erano cresciuti, mostrando così il colore originale. Gli occhi ambrati sembravano molto più spenti e incavati. Non aveva addosso il trucco nero che portava nella foto con Marte, e così la faccia sembrava quasi vuota e scarna. La sua testa era appoggiata a un soffice cuscino bianco.

Sembrava guardare fuori dalla finestra, ma capii che in realtà lo sguardo andava ben oltre che al semplice giardino.

«Venere, sono qui.», la salutò Marte con una voce fattasi improvvisamente più dolce.
Lei non parve averlo sentito e continuò a guardare in modo assorto il mondo lì fuori.

«La signorina di prima ha detto che non rimarrai qui ancora a lungo.», continuò lui con lo stesso tono di voce calmo. «Sei felice? Così potrai di nuovo uscire.»

La donna sembrò ridestarsi, mosse in modo appena percettibile le labbra. «Sì, Visshudhi l'ha detto anche a me.», riferì piano. La sua voce arrivò alle mie orecchie simile al miele, così dolce da lasciarti in bocca quella strana sensazione di leggero fastidio.

«Dove vuoi andare quando uscirai?», le domandò.
«Lo voglio rivedere.», rispose lei alzando all'improvviso la voce. «Devo cercarlo, si sentirà solo.»

«Lo troveremo. Adesso però ti devi riposare.», cercò di calmarla.
«Ce l'hanno preso», urlò lei agitandosi sul lettino. «Gli alieni, sono stati loro. Hanno preso loro il nostro bambino!»

L'Esperto d'armi si piegò su di lei e la fece ridistendere sul materasso con molta delicatezza, come se quella donna fosse fatta di una porcellana fragilissima. Il corpo stesso pareva fin troppo sottile e la maglietta bianca che indossava le ricadeva dolcemente addosso.

Furono le sue braccia a spingermi ad arretrare verso la parete. Qualcosa di nero sporgeva dalle maniche della candida maglietta del pigiama. Sembrava all'apparenza un grande tatuaggio, ma si muoveva e avanzava sulla pelle come se la stesse ricoprendo, come se la dipingesse, come se la stesse divorando.

Marte si sfilò di dosso il mantello scuro che lo copriva e lo appoggiò lentamente su di lei, come ad avvolgerla in un abbraccio che lui non poteva darle.

Senza rendermene conto avevo avanzato dei lenti passi verso di loro a quel gesto. Vulcano e Artemide erano rimasti in piedi sull'uscio della porta, incapaci di fare altro se non guardare quella tragica coppia. L'albina aveva da tempo smesso di versare lacrime, ma le sue guance erano ancora leggermente arrossate. Il ragazzo invece stava con la bocca mezza aperta e senza rendersene conto stringeva con forza l'arco d'argento.

«Ehi, Hester.», chiamò l'uomo dopo un po' di silenzio. «Tu ci sei?»

La donna aprì di più gli occhi e sembrò quasi che avesse visto Marte solo ora.
In quel momento capii che quella sul lettino davanti a me doveva essere il precedente Protagonista. Colei che era morta prima della mia nascita, quella di cui nessuno pareva sapere quasi nulla.

«Ares...», lo salutò lei, dischiudendo le pallide labbra. «Alla fine sei venuto.»
«Alla fine, sì, è la fine. Ma no, perdonami, io non sono lui.», raccontò malinconico mentre alzava gli occhi verso la finestra. «Lui è morto tanto tempo fa.»

Lei tentò di nuovo di aprire la bocca, ma ne uscì solo un rantolo soffocato. La sostanza la stava completamente avvolgendo, probabilmente aveva già attraversato tutto il corpo e adesso puntava alla testa. Sembravano come delle sottili venature scure che lentamente la abbracciavano come radici di un albero.

«Hai paura?», le domandò Marte accarezzandole dolcemente la guancia.
«Com'è morire?», chiese lei a fatica.
«Un momento prima ci sei e quello dopo non riesci più a svegliarti.», descrisse l'uomo.

«Allora sarà come andare a dormire.», sorrise lei mentre la strana sostanza scura le scivolava lentamente su per il mento.
«Sì, ma questa volta sarà per sempre.», concluse l'Esperto d'armi. Poi si piegò nuovamente su di lei e appoggiò le labbra sulla sua fronte per farle capire che qualsiasi cosa sarebbe successa lui sarebbe stato lì.

«Ti amo.», disse lei con voce quasi impercettibile mentre veniva divorata dal nero, ma lui che le era più vicino la udì e le rispose: «Anch'io.»

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