16.

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Udendo quelle parole mi si gelarono le interiora e rimasi paralizzata. Mi pentii di aver dimenticato il coltellino di Dario nell'ascensore, in questo momento sarebbe stato molto più utile della mela.

«Cosa c'è? Frufrù ti ha mangiato la lingua?», chiese lui ridacchiando e appoggiando le labbra sulla mia ferita. «Oppure sei rimasta paralizzata di fronte alla mia bellezza?»

Avrei tanto voluto rispondergli a tono, ma mi accorsi di non avere la forza di far muovere le corde vocali. La voce che vive nella mia testa imprecò un paio di volte al posto mio, e poi tornò a zittirsi.

«Non hai ancora pranzato, vero? Andiamo a mangiare qualcosa.», sentenziò lui, puntandomi il coltello alla gola.

Ci spostammo nella piccola stanzetta di quel corridoio. La cucina sembrava uscita da una rivista di cottage per goth. Le pareti erano nere con alcune mattonelle color porpora. Gli armadietti anch'essi scuri, decorati con incisioni nel legno. Le spezie erano tenute in boccette con il tappo a forma di teschio, su una mensola vicino alla teiera dall'aspetto costoso. Il lampadario stesso dava l'impressione di essere uscito dalla casa di un qualche ricco vampiro.

Il tavolino era apparecchiato per due persone. Piatti, bicchieri e posate erano neri, con disegni argentati sui bordi. I tovaglioli rossi erano stati piegati a formare un cuore anatomicamente corretto. Al centro del tavolo stava un vaso con vecchie rose conservate in uno stato di fossilizzazione.

Il cannibale mi passò davanti. Indossava una vaporosa camicetta bianca, sempre in stile vittoriano, e dei pantaloni di velluto neri. I suoi capelli chiari erano raccolti in un codino dietro alla testa e solo ora potevo notare gli orecchini rossi che teneva appesi ai lobi. Lo osservai per un po' in silenzio, studiandone i movimenti, e finalmente riuscii a riacquistare la parola.

«Mi stavi aspettando?», chiesi, dopo che lui spostò la sedia per farmi sedere.
«Io ti aspetto sempre. A volte ho anche delle allucinazioni su di te.», rispose il mostro, mentre portava a tavola i piatti già preparati.

«Allora come fai a sapere che io non sono una di quelle?», indagai mentre guardavo con disgusto la carne che mi aveva passato.
«Non lo so», confidò lui, sedendosi a sua volta. «Come potrei mai saperlo?»

«Quindi io potrei solo essere una creazione del tuo subconscio e non essere reale. È per questo che non mi hai ancora ucciso?»

Il cannibale rimase in silenzio mentre infilava tra le labbra il primo boccone. L'unico rumore erano le posate e la sua mascella che masticava e triturava il cibo.
«No, non ti ho ancora ucciso perché non ne ho mai avuto l'intenzione. E se tu fossi stata veramente una mia allucinazione l'avresti dovuto sapere.», rispose lui, incontrando il mio sguardo.

Il verde surreale dei suoi occhi sembrò trafiggermi il cervello.
«E se la vera allucinazione qui fossi tu?», avanzai l'ipotesi, solo per infastidirlo.
«Forse. Quella la mangi?», chiese indicando il mio piatto.

«Che cos'è?»
«Carne», ribatté, portando altro cibo in bocca.
«Sì, ma di chi?», domandai titubante, pungolando il cibo con la forchetta.
«Un ragazzino che è passato qui ieri sera.», rivelò lui in tutta tranquillità, come se fosse stata la cosa più normale da dire.

«Era un Fifone?», lo sollecitai.
«Sì, era in compagnia di altri quattro ragazzini. All'inizio volevo lasciarli scappare tutti, ma lui si è messo a urlare e ha interrotto la mia lettura.», narrò, rigirando tra le mani un bicchiere di vino.
«Imperdonabile, è una fortuna che siano tutti morti.», scossi la testa, posando la forchetta accanto al piatto.

Notai solo ora le quasi visibili macchie rossicce; segni di un trascinamento verso la porta, ora chiusa, della stanza alla mia destra. Non fu però quello a scompormi, quanto più lo fu il libro dalla sgargiante copertina rosa posato sul bancone. Subito riconobbi essere la stessa edizione di uno dei due libri che avevo comprato al supermercato.

Voglio vivereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora