VOLUME 1 - IN RIELABORAZIONE.
NON LEGGETEMI.
𝑻𝑹𝑨𝑴𝑨
Tutto è cambiato per Diana.
𝟐𝟒 𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 dell'incidente era solo una ragazza come tante: soffocata dai pensieri, impaurita dal futuro, convinta di non valere abbastanza.
𝟐𝟒 𝐨𝐫𝐞...
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La facciata del museo di Caserland si ergeva imponente, un opera d'arte in sé, con colonne e fregi che adornavano ogni parete. Le finestre a balconcino erano incorniciate da mascheroni in gesso e da drappi dai colori della bandiera della città. Due leoni di bronzo fiancheggiavano lo scalone d'ingresso, dove, al termine, una porta di ottone scintillante invitava i visitatori a entrare e scoprirne i tesori. Maris e Diana fecero la loro comparsa uno affianco all'altro, mantenendo tra di loro finte distanze. Da quando si era scatenato quell'attimo di estasi non si era rivolti la ben che minima parola. Il silenzio era diventato sovrano di due anime vulnerabili mascherate d'indifferenza. Ma quando varcarono la soglia, le loro menti provarono a distrarsi con qualsiasi cosa avessero attorno. Maris era bravo ad ingoiare ogni distrazione, Diana no. Avanzarono al di sotto di un passaggio di archi, intrecciati da filamenti luminosi. Una melodia intonata da un'orchestra accompagnò la coppia lungo il percorso, collegato direttamente con l'evento. Il suono di centinaia di voci colpirono le orecchie di Diana gradualmente, una stretta allo stomaco le bloccò il respiro quando si ritrovò nella folla. Provò a farsi spazio con le braccia per poter camminare ma le persone, ammucchiate nelle sala, bevevano e ridevano con disinvoltura. I suoi occhi patirono i capogiri, li strizzò violentemente accovacciandosi sulle ginocchia. Più respirò, più quel respiro divenne lama per la sua gola. Il parlottare di voci variegato al crepitio dei tacchi sul pavimento in marmo, si intensificarono fino ad allinearsi con quel dannato canto familiare nella sua testa: Se mi cerchi, mi troverai. Fu uno strazio, una lotta di sumo nel suo petto, i meccanismi del corpo andarono in tilt ma... «Segui la mia voce, respira e segui la mia voce.» Il contatto caldo di Maris la fece rinsavire dall'attacco di panico che stava avendo. La tensione cutanea si dileguò quando la guardò fisso negli occhi, piegatosi anch'esso sulle ginocchia. La mente di Diana si distrasse dalla voce che sentì abusiva dentro di sé e si concentrò solo su quella di Maris. «Ci sono io, non preoccuparti.» Le mormorò, stringendole il braccio e passandole una mano tra i capelli. Diana rimase in quella posizione per qualche istante, non distogliendo mai lo sguardo perché quegli occhi azzurri si dimostrarono l'unica ancora di salvezza dalle sue torture personali. Nel farsi aiutare nel rimettersi in piedi, Diana si accorse dell'attenzione di una signora sconosciuta rivolgersi a lei con gentilezza: «Cara, tutto bene?» Provò a rispondere ma se l'avesse fatto, sarebbe potuta svenire a momenti. La nausea risalì lungo la sua gola senza preavviso. Maris si schiarì la voce, portando l'attenzione della signora su di sé con perspicacia. «Grazie per la preoccupazione.» Le disse. «La mia fidanzata ha avuto un leggero mancamento, qualcosa dal buffet e sarà come nuova.» Diana notò con che scioltezza e che sorriso fin troppo cordiale Maris aveva inscenato, quella faccia da bravo ragazzo che aveva assunto le sembrò inquietante – conoscendo il reale contenuto dietro la maschera. La signora ricambiò il sorriso. «Bene, divertitevi ragazzi.» Esordì, prima di girarsi dall'altra parte. Quando non furono più nel suo campo visivo, il sorriso cordiale di Maris scivolò via in un istante. Al suo posto si formò una fossetta tra le sopracciglia e i lineamenti si indurirono. «Tutto bene?» Le chiese. «Sì, tutto bene.» Penso. «Sei sicura?» Le ribatté. «Non mi è sembrato il comportamento di qualcuno che sta bene.» Diana inalò più aria che potesse, riprendendo il controllo del suo corpo e della sua mente. Non poteva perdere le staffe proprio ora, ogni priorità doveva andare al vaso di Pandora. «Credimi, sto bene.» Si sforzò di sorridere. «Non preoccuparti per me.» «Non lo faccio.» Borbottò lui, distogliendo lo sguardo. «E solo che non puoi rompermi con la storia della morra cinese e poi farti venire un attacco di panico.» «Non ho avuto un attacco di panico.» Diana fece uno sforzo per dimostrarsi convincente. «Qualsiasi cosa tu abbia avuto, ti sei appena qualificata come palo.» Diana gli lanciò un'occhiata torva, provò a controbattere ma Maris le fecce cenno di seguirlo. Così si fece forza, passando tra la gente senza dare conto a quel senso di oppressione che percepì ad ogni passo. Per distrarsi da ciò, concesse ai suoi occhi di perlustrare con circospezione. Lungo le pareti dell'androne del museo erano stati istallati dei pannelli in legno ricoperti da un rivestimento di foglie rigenerate, sul quale erano collocati ad incastro file di calici traboccanti di champagne. Diverse statue si univano alle decorazioni, delle corde dipinte di rosso erano state installate per evitarne il contatto ravvicinato. Il soffitto decorato con affreschi e scene storiche, seppe dare un contrasto tra antico e moderno. Maris e Diana giunsero ad un arco nella parte opposta dell'entrata dove, un frontone, collocato al di sopra di esso, recitava tra le decorazioni a meadro: LA MITOLOGIA GRECA INCONTRA LA REALTA'. Al lato era stato infisso un pannello introduttivo dove illustrava la storia della mitologia in questione. Quando vi entrarono, Maris studiò con meticolosità tutto il perimetro. Lungo le pareti interne erano disposti gli accessi collegati al restante del museo – l'unico modo per arrivare all'ufficio del direttore – controllati da omoni di quasi due metri. E questo fu già un punto al loro svantaggio. Non hannoproprio badato a spese, pensò invece Diana, contemplando la rarità degli eventi di quella portata aperti al pubblico. Al centro della sala vi erano delle teche disposte come un corridoio modellato a zig zag, inducendo a chi lo percorresse, di far saettare il proprio sguardo da ogni lato, regalando un'esperienza visiva. Al termine di esso, una vuota era stata messa in evidenza, più grande ed elaborata, all'interno un lenzuolo copriva la didascalia in ottone. Diana pensò subito che quella teca sarebbe stata la casa per il vaso di Pandora. Diversi quadri, grandi come arazzi, coprivano a livelli sovrapposti le quattro mura. Le statue in marmo e in avorio, disposte nella sala, raccontavano storie per lo più impostate sulla battaglia. Come per esempio quella di Acheloo che, per vincere la battaglia contro Ercole, si trasformò in un serpente. I due combattevano per il cuore di Dejanira, principessa di Calidòne. Da quello che trasmise la scultura, Ercole riuscì a sconfiggere Acheloo, il Dio fluviale, avvinghiandolo e torcendogli il collo. Un'altra statua, invece, narrava la storia di Teseo. Lo scultore immortalò il momento della sua vittoria contro il Minotauro. L'eroe della storia era stato raffigurato con il volto chino, un piede poggiava sul terreno e l'altro sulla punta di una delle corna dell'essere mitologico. Diana proseguì, rapita così tanto dalle opere da non curarsi più delle persone attorno a lei. Un tepore di magia e mistero aleggiava nell'aria come etere narcotica che riuscì a stordirla. I suoi occhi scivolarono ancora ad ogni passo, ispezionando una fila di teche rettangolari poste lungo il perimetro di una parete. Non è possibile, pensò, realizzando cosa stesse guardando. Su un cuscino bianco vi erano cumuli aggrovigliati del medesimo fascio di fili, pendevano in ogni lato senza fine. I filamenti di lino di vario colore erano intrecciati in modo compatto. Alcuni erano di un blu acceso e altri ambrati, con segni evidenti di usura. Al di sotto la didascalia riportava: Il filo d'Arianna. Nella teca successiva vi era esposto uno scudo ricoperto da frange in pelle che pendevano consumate. Al centro dei motivi intricati, realizzati con materiali preziosi, si sprigionava la testa di Medusa. L'espressione carica di emozioni, descrisse perfettamente l'attimo durante il quale la testa di qualcuno viene tranciata via dal corpo. Con gli occhi stretti e la bocca semi aperta, era come se Medusa fosse pronta a lanciare un grido di battaglia che, però, non riuscì mai a fare. I serpenti attorno al suo volto sembravano arbusti di un cespuglio e due ali erano state rappresentate ai lati delle orecchie. Scivolando lo sguardo verso il sostegno in legno si poteva leggere la storia del manufatto con un paragrafo scritto in corsivo: La preziosa egida, inalterabile e pura, da cui pendevano cento frange meravigliosamente intrecciate, tutte d'oro e ciascuna delle quali valeva cento buoi. (𝟏) Poi ci fu la cornucopia a forma di bicchiere gigante con il fondo terminante a spirale. Era stata realizzata con un sovrapporsi di rametti, fissati da filamenti in oro così stretti e compatti da non lasciare alcuno spiraglio. La cornucopia era usata dal Dio Pluto ed era in grado di creare cibo dal nulla senza fine. Diana si ripeté tra sé di avere priorità più importanti del fare il giro turistico tra tanti artefatti ritenuti non altro che leggende. Data la dubbia provenienza, le sembrarono delle copie dall'estetica fin troppo convincente. Ciononostante più coglieva le particolarità più la curiosità la spinse a proseguire. Notò una folla di persone raggruppata davanti a quelle che sembravano le reali Ali di Icaro. Tentando di evitare i continui flash dei telefoni che lampeggiarono contro quella parte di storia, Diana si avvicinò per osservare meglio. Le leggendarie Ali di Icaro erano state create da Dedalo con file di piume di uccello, legate tra di loro con uno spago dove alla base scintillava una colata di cera. Al centro, invece, per congiungere le due ali, vi era un'imbracatura per fissarla entrambe alle braccia. Ma come la leggenda narrava, un'ala si presentava spezzata con delle piume instabili come petali secchi. Senza rendersi più conto di nulla, Diana riprese a camminare verso l'ultima teca degli artefatti leggendari: Il Pomo della Discordia. Quando osservò sé stessa attraverso la superficie levigata d'oro, pensò che la curiosità pericolosa di Icaro l'avesse contagiata. La sua mente perdette di nuovo le staffe e la stanza attorno a lei sparì per una frazione di secondo. L'aria che respirò non la percepì e il ronzio delle voci si ovattò sempre di più. Perse la solidità del suo corpo, divenne una semplice sostanza aeriforme in un mondo inquinato. Diana non comprese se fosse un altro mancamento ma descrisse piacevole la sensazione sotto la pelle. Era come se quell'oggetto la chiamasse, come se stesse cercando di sussurrarle qualcosa. Ma d'un tratto un tocco sulla spalla la fece girare di scatto, riportandola alla realtà così com'era. Nascose il respiro affaticato che quello stato di trance le aveva lasciato. Fissò Maris e comprese che fosse arrabbiato. «Finito di perdere tempo?» «Sto analizzando la zona.» Sì, sono stata imprudente. Pensò invece, chiedendosi perché fosse così distratta. «Dovresti analizzare quei bei fustacchioni alle entrate.» «Quello dovrebbe essere compito tuo siccome sono solo il palo.» Gli ribadì lei. «Ricordi?» Maris la guardò corrugando le sopracciglia e si lasciò andare ad un sospiro. «Mi fa piacere sentirtelo dire ma se la prossima volta che ti chiamo e non rispondi potrei farti pagare pegno, quindi attenta.» «Posso anche fare a meno delle tue provocazioni.» «Aah!» Si lamentò. «Zitta e seguimi.» Raggiunsero entrambi un piano rialzato sul quale era stato collocato il bancone con piatti traboccanti di stuzzichini. Affianco vi era la piattaforma, invece, apposita per accogliere il discorso del direttore del museo. Diana capì il perché dell'interesse di Maris verso quel punto preciso: dopo qualche scalino, girandosi di spalle all'addetto che rimpiazzava i vassoi vuoti, si poteva studiare la folla con maggiore facilità. Sbatté le palpebre per focalizzare meglio e, mentre cercava di non incrociare lo sguardo di nessuno, provò allo stesso modo di individuare il direttore del museo. «Lo vedi?» Chiese lei, cedendo all'odore invitante del buffet. Non aveva mangiato nulla, forse era anche per quello si sentiva costantemente alterata. «Vedo solo quello che vorrei avere ora.» Diana udì quelle parole sospirate a pochi centimetri del suo orecchio. Nonostante sentì un tremolio partirle dal basso, gli scoccò un'occhiata torva. Maris rise, guardando divertito le sue guance rigonfie del buffet e leggermente paonazze, come un innocente scoiattolo. Ma sei tutt'altro che innocente, vero? Si domandò con fermento nella mente, tentando di allontanarne la disinibizione. «Quello che pensi» fece Diana, ingoiando tutto con difficoltà. «Succederà solo nei tuoi sogni.» Un'altra risata scoccò tra le labbra di Maris. «Non fare l'orgogliosa.» Le mormorò, sfiorandole i capelli ricadere vicino le guance. «Che arrossisci solo a dirlo.» Poi le sfiorò così veloce il collo da farle scattare un brivido che non riuscì a nascondere. Dio, quanto gli piaceva controllarla. Il suo dolore, il suo sonno, la sua morte, i suoi valori e, ora, anche la sua eccitazione. Aveva e stava assaporando ogni suo lato e quelle labbra, Dio, quella labbra già gli mancavano. Voleva morderle, succhiarle, leccarle. Se non fosse stato per il decoro, avrebbe posseduto Diana proprio su quel bancone dei buffet. Ma avevano una missione da portare a termine così Maris si costrinse a respirare. E anche Diana lo fece, i ricordi del loro momento fugace le passarono nella mente come una sequenza. «Sono realista, non orgogliosa.» Mentì spudoratamente, mentì nonostante sapesse che avesse ceduto e che avrebbe fatto in modo che accadesse. Non era la prima volta per lei che si concedeva al sesso. Non ne aveva mai tratto quel piacere che tanto i ragazzi alludevano. Ma con quel bacio, Maris, l'aveva fatta sentire come se fosse la primissima volta, solo con un bacio aveva risvegliato le radici annidate nel suo corpo. Come uno scontro in battaglia, quell'attimo, si era nutrito di lei. Le mani di Maris l'avevano toccata come corde di violino, annebbiando ogni sua percezione e denudandola solo con una scarica di estasi. Ma nonostante ciò, si vergognava. Stava provando emozioni nel modo sbagliato per una persona altrettanto sbagliata. Ne era consapevole ma non ne poté fare a meno, doveva buttarsi a capofitto. «Beh, non te l'hanno mai detto che la realtà è spesso deludente?» «Nella realtà che vorrei, tu sicuramente non esisti.» Il volto di Diana saettò con fare distratto, accennando solo appena ad un sorriso. Maris la guardò di sottecchi, battendo le dita di sbotto contro la superficie del bancone. «Bene!» Un'espressione melensa si dipinse sul suo volto. «Ti voglio così anche quando cercherai di nuovo di baciarmi.» Fece scivolare dalla sua bocca quelle parole fino alla punta della lingua. «Dovremmo pensare a cose più importanti» Fece lei. «Come entriamo in quell'ufficio?» «Come entrerò in quell'ufficio?» Mormorò lui. «Volevi dire.» A passi pesanti sorvolò i pochi gradini che lo dividevano dal pavimento in marmo, allontanandosi accigliato. «Ci penso io, come sempre.» Bofonchiò. Si passò nervoso le dita sul solco della cicatrice, odiava che quel tic fosse tornato di nuovo in lui. Da quanto aveva raccontato per la prima volta quella storia a Diana, qualsiasi cosa riguardasse lei, gli scattava quel gesto in modo involontario. Un pensiero nostalgico andò ad Aegir, a cosa mai avrebbe potuto dire se fosse stato ancora tra loro. Se avesse potuto sapere della passione nascitura per sua figlia, l'avrebbe sicuramente infilzato con i Kris di legno che gli intagliava da piccolo. Ma forse, pensò sempre lui, lo avrebbe risposto con la solita frase che amava profetizzare: «Non fermarti davanti a chi dice che non puoi farlo.» Afflitto da certi pensieri, si concentrò prima sul numero di guardie ad ogni entrata, attenti a controllare l'evento susseguirsi sotto i loro occhi. E poi si indirizzò verso il direttore del museo, lo aveva adocchiato mentre Diana aveva iniziato ad appropriarsi del buffet. Così intraprese il percorso zig zag, girovagando con disinvoltura a distanza dall'uomo. Lo vedeva sorridere ad ogni persona che gli si avvicinava per stringergli la mano. Avrebbe dovuto avere 50 anni ma, per Maris, ne dimostrava almeno 60. Henry Cooper era un uomo tarchiato e senza capelli. Le guance paffute e gli occhi stretti gli conferivano un'aria di essere qualcuno cordiale e onesto. Quindi, si dissi, non sarebbe stato un problema raggirarlo. Maris poi passò ad analizzare il completo blu che il direttore aveva indosso, soprattutto i rigonfiamenti delle tasche della sua giacca. In una vi era una forma rettangolare: il telefono, inutile. Dall'altra invece, un peso dalla forma irregolare posto sul fondo, cambiava forma ad ogni minimo movimento. Bene... Maris distolse lo sguardo, puntando l'orecchio per cogliere brevi frasi: «Rimarrete stupefatti!» o «Sì, a breve ci sarà l'esposizione.» Sentì il labbro superiori fremergli, doveva accelerare la loro tabella di marcia. Così cambiò direzione e camminando definì la sua traiettoria. Mimò un'espressione di stupore per le opere attorno a sé e, al momento giusto, accelerò in modo goffo la sua andatura. «Oh, sono desolato!» Sbottò quando la sua spalla sbatté accidentalmente contro la spalla del direttore, facendogli fare un passo indietro. Gli si avvicinò prontamente, recitando la miglior espressione imbarazzata che potesse fare. «Ma voi siete il Signor Cooper?» Alzò la mano destra per portarsi una ciocca di capelli dietro l'orecchio, per poi tenderla verso l'uomo. Fece in modo che gli occhi del direttore guardassero spesso solo dove volesse Maris. «Sì, sono proprio io.» «Sono onorato di incontrarvi di persona, chiedo ancora scusa per la mia goffaggine ma ero preso a guardare questa sala che pullula di energia. Senza di voi, questi oggetti e queste sculture non sarebbero qui.» La medesima mano della stretta, la destra, la fece scivolare a mezz'aria per indicare dei punti imprecisati. Con il fianco sinistro si avvicinò a quello del direttore, che non fece a meno di seguire ammaliato il discorso del ragazzo. Henry Cooper fu troppo preso dai complimenti da non accorgersi della lesta presa in prestito. «Non preoccuparti, cose che succedono.» Rispose infine con cortesia il direttore, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla. «È un piacere ascoltare l'opinione delle nuove generazioni.» Il volto di Maris fece un inchino, socchiudendo gli occhi e librando le dita nei suoi confronti. «Con permesso, vi lascio al vostro evento.» Così fatto si girò di scatto, allontanandosi dal centro della sala mentre manteneva il bottino stretto fra le mani. Pensò per qualche istante di proseguire da solo, dopo quella conversazione con Diana, aveva il desiderio malevolo di farle perdere le staffe. Per poi dilettarsi, a modo suo, nel farsi perdonare. E d'altronde non si stava rivelando abbastanza capace da poter affrontare evenienze scomode, come quella di essere scoperta e non lasciare, quindi, testimoni. La vedeva debole, con indosso una maschera per rendersi credibile, poteva mentire agli altri ma non a lui. Tuttavia, la parte coscienziosa di sé prese il sopravvento: non poteva passare inosservato a sale controllate senza un aiuto. Senza il suo palo. Si girò nel cercare Diana e, proprio in quel momento, la vide essere trascinata da due camerieri, lontano dal bancone dei buffet. La tensione si insinuò dentro di sé anche se, si disse, a primo sguardo, i due in divisa non avevano l'aspetto di essere dei membri del Sacro Triskell. E allora, pensò, chi diavolo sono?
•𝑾𝑰𝑲𝑰-𝑨𝑹𝒀𝑨 (𝟏): Tratto dal Canto II di Omero.
•𝑬𝑿𝑻𝑹𝑨
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