11 - The Big Boss of the Lab

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Kara



Ho paura di muovermi.

Appena faccio un passo all'interno del laboratorio, sono pervasa dal timore di fare danni. Anche il fatto di non aver accompagnato la porta mentre la chiudevo, ma aver lasciato che sbattesse dietro di me, mi fa preoccupare.

Le mensole a destra e sinistra sono piene di quei boccettini di vetro, alcuni ammassati gli uni sugli altri. Alcuni pieni, alcuni vuoti. Alcuni contenenti delle fiamme bianche, alcuni un qualche intruglio più scuro.

Temo per quella finestra aperta, per ogni spiffero d'aria che potrebbe agitare tutto ciò che di delicato si trova qui dentro. E, soprattutto, temo che ciò che si trova qui dentro potrebbe uscire.

Forse ci sono componenti tossici, o agenti che mescolati insieme diventano esplosivi. Forse ci sono frammenti di oscurità, abbastanza affamati da cibarsi della paura che sento adesso, e capaci di fare ancora più danni.

Mi sento come un elefante in una cristalleria, mentre mi muovo cauta verso il centro della stanza. Ahmed mi ha detto che potevo entrare, e fuori fa freddo.

Ma mi annoio facilmente, specie quando devo aspettare per un tempo indeterminato.

Mi volto, allora, verso lo scaffale alla mia sinistra. Riconosco delle Láng, e noto che sui vari barattoli in cui sono contenute è riportato un nome e un numero. Una data.

E ci sono nomi e numeri anche sui contenitori vuoti. Delle date future.

Uno ha la data di oggi.

Allungo un braccio verso il ripiano, curiosa di leggere quel nome. Chi è stato selezionato per un esperimento, oggi? Sono io, forse?

«Kara, non passare di lì.»

La voce di mio fratello mi fa trasalire. È come quella di Mamma, quando ero bambina e lei mi richiamava per aver ficcato il naso dove non dovevo.

Nel sobbalzare, perdo la presa sul contenitore di vetro. Faccio del mio meglio per salvarlo, ma dopo qualche rimbalzo tra le mie dita lo vedo infrangersi per terra.

Riesco a leggere solo una lettera di quello che dovrebbe essere il nome o il cognome. Una m, o una n.

Non saprò mai chi è esattamente. Ma almeno ho la certezza che non sono io.

Mi nascondo subito le mani dietro la schiena, e abbasso la testa. «Mi dispiace» balbetto, facendo qualche passo indietro, più lontana dalla scena del crimine.

Ahmed sospira, e si copre gli occhi con una mano, per poi farla scivolare lungo il viso. «Vado a prendere una scopa» borbotta, rassegnato.

Mi faccio piccola, ma non mi offro di pulire al posto suo. E so anche che rifiuterebbe, dicendo che rischierei solo di fare altri danni, se tentassi di aiutare.

«Ah, la nuova arrivata, suppongo.»

Una voce ci raggiunge da lontano, e non capisco subito da dove provenga.

Poi sento il suono dei tacchi di mocassini sul pavimento lucido del laboratorio, e mi accorgo che un uomo sta camminando verso di noi. Dev'essere appena uscito dalla stanza che si trova dietro le spalle di Ahmed.

Ha occhi piccoli e tristi, di un azzurro chiaro, riparati da un paio di occhiali dalla montatura sottile.

Avrà una sessantina d'anni, non di più. I capelli bianchi stanno cominciando a diradarsi, e qualche ciuffo copre a malapena la punta delle sue orecchie leggermente a sventola. Si notano un paio di nei sulla sua fronte spaziosa.

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