13 - Il problema del CD - 💿

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(POV Blake)

Il problema delle cose che non sai è che racchiudono conseguenze, a prescindere dal tuo grado di inconsapevolezza. Hanno un potenziale esplosivo tutto loro, che se ne fotte delle tue intenzioni. Così, potrebbe capitarti di trasportare una bomba, ignaro che quella stia per fare un botto fragoroso proprio nelle tue mani.

Sul palco mi stiracchio il collo nell'attesa che la Dunkan varchi la soglia. Jonas è seduto a terra a gambe incrociate, il viso di Elizabeth è scomparso dietro le pagine delle dispense e tutti gli altri si sono radunati accanto alla tenda verde, parlottano ammazzando il tempo. La porta in cima si spalanca e la luce inonda la gradinata, la sagoma che appare tra la fila di poltrone non è quella di Rosalind, è Victor a scendere verso di noi. Serio in volto come non lo vedevo da anni. I suoi passi risuonano sul legno non appena mette piede sul palco. Jonas gli lancia un'occhiata che pare una palla di fuoco, lui abbassa la testa e la scuote. Mi piacerebbe capire cosa cazzo succeda nelle teste imbecilli di entrambi. Con dieci minuti di ritardo la porta si apre di nuovo ed eccola, Rose, con troppe cose tra le mani e i capelli sconvolti da un uragano, le vado incontro e le tolgo i suoi mucchi di fogli, lei sorride, la aiuto a sistemare la sua roba sulla poltroncina in prima fila, si china e gli occhiali le cadono dalla testa riccia, finiscono sui fogli, una lente inquadra alla perfezione la parola sciagura.

Quel vocabolo ha il volto della vicepreside Peterson, che per l'ennesima volta spalanca la porta e senza convenevoli urla: «Blake Evans, prendi le tue cose e seguimi!»

Strabuzzo gli occhi e mi guardo intorno. Che ho fatto? Rosalind si gira verso la nazista in tailler scuro, poi verso di me. Allargo le braccia, come a dire non ne ho la più pallida idea. E davvero, non ce l'ho. Vorrei avercela, se ce l'avessi non me ne starei impalata come una cretina con gli occhi sgranati.

«Che succede?» La voce della Dunkan risuona nel teatro.

«Sono fatti privati.»

Oh Dio. «I miei stanno bene?»

«Non è morto nessuno signorina, ma non potrò dire lo stesso di lei se non si sbriga a seguirmi.» Il distacco della Peterson mette i brividi. Riesce a minacciare di morte mantenendo una freddezza degna di nota. Le vado incontro, come si va incontro a una mannaia.

«Le sue cose, Evans.»

«Le prenderò dopo.»

«Dopo, lei se ne torna a casa.»

Il vociare di tutti riempie lo spazio. Victor mi guarda. Tutti mi guadano. Raccolgo lo zainetto dal primo gradino e salgo le scale. Cammino, come se a ogni passo dovesse aprirsi un precipizio pronto a risucchiarmi. Seguo quella specie di automa fuori dal teatro, sul pavimento a scacchi del corridoio bianco e nero. Io sono un misero pedone e lei è la regina, sa che può muoversi come vuole, andare dove vuole, sbranare chi vuole e oggi ha scelto me.

«Mi dice che succede?» Provo a estorcere indizi dalle sue labbra sottili. Pare un rettile la Peterson, con la sua bocca inesistente, che somiglia a un taglio sulla faccia fatto solo per permettere di sputare il suo veleno.

«Non c'è fretta.» Certo che non c'è: lei ci gode a tenermi sulle spine.

Arriviamo davanti alla porta dell'aula computer, mi fa segno di entrare. Non c'è nessuno all'interno, siamo solo io e lei. Se comparisse Freddy Krueger non mi stupirei: sarebbe l'incubo perfetto.

«Ieri ha avuto lezione in quest'aula, giusto?»

«Ha gli orari di tutto l'istituto, sa bene che è così, perché me lo chiede?»

Quella bocca da serpe si incurva. «Infatti, Evans. Perché glielo chiedo?» Fa una pausa. «E mi dica, il lettore CD sulla cattedra, quello con il suo nome inciso sopra, è suo?»

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