48 - La pillola -

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Il cielo sopra di noi sembra trattenere il fiato, il suo grigio cenere pesa sull'aria come un lenzuolo bagnato. Jonas è lì, fermo, con lo sguardo che sfugge al mio, come se non riuscisse a reggere il dolore che gli lascio cadere addosso.

Il cortile della scuola pullula di gente. Troppe voci che si sovrappongono. Risate insopportabili e spensieratezza urticante.

«Non ce la faccio a entrare in classe oggi.» biascico. Divento una voce tra tutte le voci. «Andiamocene alla vecchia palestra.»

«Il prof. sta entrando adesso... » esita, ha le spalle tese, e i suoi occhi si perdono verso l'orizzonte, cercano la via d'uscita alla richiesta che gli ho fatto.

Un mese fa non ci avrebbe pensato due volte. Mi avrebbe trascinata lì e mi avrebbe ritratta senza battere ciglio. Ma io oggi non voglio un ritratto, e nemmeno lui. Qualcosa mi dice che Joh non ci disegnerà mai più, né me, né Victor. Perché io e lui abbiamo smesso di esistere.

Alla fine annuisce, lento. È come se stessimo camminando verso il precipizio, e lui lo sapesse.

La palestra dismessa ci accoglie nel suo silenzio freddo, il pavimento è un mare di polvere e frammenti di vernice scrostata caduta dal soffitto, il tetto lascia entrare strisce di luce pallida che tagliano l'oscurità. L'odore di umido e vecchio si mescola a quello della terra perennemente bagnata, oltre la porta divelta. Ogni nostro passo solleva nubi di pulviscolo, che si agitano come fantasmi al nostro passaggio.

Mi fermo davanti a Jonas, le mani lungo i fianchi che si aggrappano al niente. I miei occhi lo implorano, ogni cellula di me lo implora.

«Me l'hai portata?» la mia voce si fa leggera, eppure pesa lo stesso.

La sua mandibola si contrae, il respiro lento e controllato, come se stesse cercando di calmarsi, o di non perderla la calma che ha addosso. Quel sentimento che io non sfioro da giorni.

«Non credo che dovresti prenderla...» ci prova, ma il mio bisogno è più forte di qualsiasi ragione.

Quella pace la voglio, sto smaniando.

«Però l'hai portata lo stesso, vero?» Non è una domanda. È una sentenza. Qualcosa nella mia voce suona in modo sinistro.

Sta zitto. Infila le mani in tasca, tira fuori la pasticca. Quel piccolo oggetto bianco tra le sue dita sembra così insignificante, eppure ha un potere enorme. È la mia fuga.

«Facciamoci una canna.» Ci prova di nuovo.

«Non ci faccio un cazzo con l'erba.»

«È un'idea del cazzo.»

«Se non mi dai quella mi faccio un giro nei locali stasera, qualcosa la trovo, trovo pure qualcuno che me la offra.» Le parole mi escono male e troppo in fretta. Piene di rabbia che graffia. Lo faccio con la persona sbagliata.

Joh non mi ha fatto niente. Lui non ha alcuna colpa.

«Non posso costringerti a fare niente,» mormora, si rassegna. La sua voce è spenta e incazzata, è troppo stanco per protestare davvero. Forse è già stufo. Di me, di tutte queste cazzate. Della pioggia di merda che porto.

La prendo senza pensarci due volte. La pasticca ha la consistenza del gesso tra le dita. La butto giù col succo di frutta che mia madre mi ha dato col pranzo. La chimica è una scienza curiosa, somiglia alla magia. Lancia incantesimi così potenti da camuffare la realtà. Questa minuscola compressa può cancellare tutto. E forse lo farà. Farà calare la tenda.

Il tempo rallenta. Le pareti della palestra sembrano ondeggiare. Aspetto che salga, che mi si sciolga dentro e faccia il suo effetto.

Come sarà? Cambierà colore alle cose?

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