24 - Ubriaca e molesta - 🍾

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(POV Jonas)

La notte è una tela distorta, imbevuta di alcol e risate stridule. Il giardino, illuminato da luci soffuse, è un alveare di ombre danzanti. La musica pompa, un mix di bassi profondi e ritmi ossessivi che fanno vibrare l'aria e le casse toraciche. Ho la musica nelle orecchie e nella gola. Un cuore meccanico che continua a battere, dentro e fuori dal corpo. Cathe si avvicina, i suoi capelli rossi ondeggiano nella penombra. Mi si struscia addosso. Chiudo gli occhi e respiro a fondo, quando li riapro i suoi colori pastello mi arrivano addosso, tutte quelle cromie si stagliano contro l'oscurità del cielo. I tacchi la fanno sembrare più alta di quanto già non sia. La sua voce è un sussurro zuccheroso, carico di intenzioni che non ho alcuna voglia di esplorare di nuovo.

Grazie, ma non mi faccio un altro giro.

«Jonas, non balli mai?» Appunto. Ho il suo alito caldo sulla pelle, odora di vodka e gomme da masticare alla menta.

Cerco di mantenerla a distanza, un gioco di equilibrio complicato visto che mi spinge contro il muro e socchiude gli occhi. È ubriaca, del tutto ubriaca.

«Non sono in vena.» Forzo un sorriso e cerco di liberarmi dai suoi tentacoli. Che cazzo di piovra. Lei ride, una risata leggera che sa di bolle di sapone. Stringe ancora, come se non avesse sentito un cazzo di quello che le ho detto.

«Dai, Joh, balliamo un po'...» La sua mano si posa sul mio petto, le unghie laccate di viola contrastano con la lana grigia del mio maglione.

«Forse più tardi.» Le prendo la mano e la sposto. Come si fa a dire di no, senza sembrare un completo stronzo? Il suo sguardo si fa insistente, ma alla fine cede, si allontana. Balla davanti alla fontana delle sirene, accanto a uno del quarto anno di cui non ricordo il nome. Mi lancia occhiate ammiccanti, come se volesse dirmi, che il mondo è pieno di pesci, che lo trova quando vuole uno che glielo sbatta dentro senza fare tante storie.

Grazie Cathe.

Il giardino pullula di gente ubriaca, corpi che si muovono in un'orgia di passi. Hanno tutti i vestiti addosso, ma da come si passano le mani sui fianchi, dalle gambe che si intrecciano, dagli sguardi sciolti, è chiaro quello che gli scorre dentro, a parte l'alcol.

Trevor Bennet, invece, dentro ha solo l'alcol: è sprofondato in una siepe con la faccia tra le foglie, le mani abbandonate ai lati del corpo e il culo per aria. La bottiglia di vodka accanto a lui brilla sotto la luce della luna. Mi guardo intorno, cerco loro.

In fondo al giardino la serra brilla lattiginosa di vapori e riflessi umidi, un quadro impressionista immerso nella foschia notturna. Victor emerge per primo, la sua sagoma alta si staglia contro la luce calda delle lampade. Incrocia il mio sguardo e sul suo viso compare quell'espressione di sorpresa stonata, la stessa di quando incroci un tizio per strada e stai per salutarlo, per poi accorgerti d'averlo confuso per qualcun altro.

Poco dopo, appare Blake. Pare tornata da un sogno, un brutto sogno. Capelli scuri spettinati e assenza di segnale negli occhi. C'è qualcosa di inquietante nel suo modo di camminare, come se fosse trascinata da una forza invisibile. Mi chiedo se quella forza sia lui. Torno a guardarlo e mi schiva.

Che cazzo hai fatto, Vic?

Blake è spaesata. Come se qualcuno si fosse divertito a bendarla e l'avesse fatta girare su sé stessa troppe volte.

Sei ubriaca anche tu, come tutti gli altri?

Era così la prima volta che l'ho vista, pure se era in lacrime e piena di rabbia e non aveva bevuto neppure un goccio.

Cathe torna, io sospiro e spero scompaia.

«Perché sei stato con me nella biblioteca... e adesso la guardi così?» Un sussurro tagliente annacquato nell'alcol. La calca quella parola, come se fosse ovvio il suo significato.

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