49 - Bunker -

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(POV Jonas)

Mando avanti e indietro lo sguardo da un angolo all'altro della mia stanza e continuo a camminare, come se potessi trovare una risposta tra i graffi sul parquet consumato. Il rumore dei miei passi si mescola al suono ovattato della discussione che rimbomba al piano di sopra. Le voci di mio padre e mia madre risuonano dure. Un malumore plumbeo si addensa e satura l'aria. Non riesco a capire ogni singola parola, ma stanno parlando di me. E di quel maledetto piano che mio padre ha deciso per il mio futuro. L'università del cazzo in cui ha deciso di ficcarmi. Mia madre mi sta difendendo? Per questo se la prende con lei? La porta della loro stanza si chiude con un colpo sordo.

Mi avvicino al comò di mogano, la superficie lucida riflette la luce della lampadina a incandescenza. Stringo i pugni e li sbatto contro il legno. Il vaso di ceramica bianca e blu oscilla sul bordo, quel breve tremore è un istante sospeso, come se l'intero equilibrio della mia vita dipendesse da quel fragile oggetto. Non si rompe. Non ancora.

Forse avrei voluto che cadesse. Che si sfracellasse al suolo.

«Quanto cazzo ci mettono a levarsi dal cazzo?» sibilo tra i denti serrati, quasi spero che il suono delle mie parole li raggiunga. Le mie mani scivolano lungo il comò, le unghie premono sui bordi. Si insinuano nelle venature, vorrei che cedessero sotto la pressione. Potrei continuare fino a spezzarmi le dita.

Mi fermo, ho il respiro pesante. Uno, due, tre e quattro passi, poggio l'orecchio contro la porta. La superficie liscia e fredda assorbe il calore dalla mia guancia, mi ci appoggio con tutto il peso del corpo, le loro parole suonano spezzate, spezzate come tutto ciò che ci tiene insieme in questa casa. L'aria che ci circonda è diventata colla, solo per questo siamo ancora una famiglia.

Se l'espressione spacciata di Blake aveva i motivi che temo, gravissimi, forse alla fine del giorno questa famiglia sarà libera da ogni legame.

Al tramonto mi dirò orfano.

Eccolo, il cigolio delle scale e i passi che rimbombano sul legno antico. I cardini della porta d'ingresso che si spalanca, poi il respiro feroce dell'auto che si accende.

Mi catapulto verso la finestra, l'inverno mi si abbatte addosso attraverso il vetro, è quasi un sollievo il gelo sulla pelle. L'auto nera scivola lungo il vialetto, lenta, una lama che taglia la carne senza fretta. Il cancello di ferro battuto si apre, stride come se provasse a resistere e si chiude dietro di loro con una calma crudele.

Ci siamo.

Una sorta di sollievo mi rianima. Io non sono il figlio che vuole. Non sono il figlio che costruirà l'impero che sogna, non sono quello che continuerà la sua eredità, il suo lascito. Sono qualcos'altro, qualcosa che lui non riconosce.

Lo detesto a tal punto che vorrei estirparmi da dentro il suo merdoso DNA.

Le mie dita contro il vetro sbiancano. Vorrei che quel cancello non si aprisse mai più. Restare qui dentro bloccato per sempre. Da solo.

Vorrei che un tir li travolgesse al semaforo. Cancellasse quei mali dal mondo.

Dentro di me, il vuoto rimbomba, si espande. Lascio cadere lo sguardo sul pavimento, poi lo riporto sulle pareti. Sembra più piccola adesso questa stanza, più stretta, opprimente.

Mi allontano dalla finestra, il respiro mi brucia in gola.

Esco dalla mia stanza con uno strano presentimento nel sangue, quella sensazione scivola sotto la pelle e sussurra una profezia sbilenca. È simile al sesto senso degli animali prima di un terremoto, un istinto a cui non si può sfuggire, che aggroviglia le viscere e drizza i peli del collo. Ogni respiro sembra più corto del precedente. Mi fermo un attimo, ascolto il silenzio che riempie la casa. Sono solo. Ecco l'unica cosa che mi dà sollievo. I miei passi si fanno lenti, misurati. Ogni movimento somiglia a una preghiera che scivola verso gli inferi.

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