52 - Mano nella mano -

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(POV Victor)

Davanti alla scuola, c'è una calca infernale. Un'ambulanza è parcheggiata nello spiazzo oltre il cancello, le luci lampeggiano, ma non c'è il suono delle sirene. La folla è immobile, alcuni parlano a bassa voce tra loro, ma nessuno sa niente. Nei loro occhi c'è il vuoto. Chiedono, osservano, suppongono.

Non capiscono cosa stia succedendo. Non capisco nemmeno io.

Mi faccio largo tra i corpi ammassati, il brusio intorno a me risuona incessante, frammenti di frasi che si perdono nell'aria gelida del mattino tra uno sbadiglio e un tiro di sigaretta.

«Qualcuno è caduto...»

«Un incidente...»

«Ma chi è?»

Il suono ovattato delle loro chiacchiere riempie lo spazio tra i battiti del mio cuore.

Un presentimento macabro mi si pianta alla base del collo, come una mano gelida che mi accarezza.

Mi avvicino al cancello chiuso, mi ci appoggio per mandare lo sguardo oltre le sbarre, in cortile. Il ferro freddo mi punge i palmi. Il bidello mi squadra.

Spingo troppo il gomito contro il metallo e il dolore torna a farsi sentire. I segni che mi ha lasciato ogni tanto riaffiorano. Piccole fitte, una parte del corpo che brucia, a volte solo la gola che si stringe. Cerco qualcosa tra la ghiaia bianca e le pozzanghere, tra i passi rapidi dei paramedici. Quel qualcosa mi scava dentro, mi cerca a sua volta.

Un gioco strano di calamite rotte. Respiro a fatica, il cuore batte troppo forte, eppure il sangue alla mia testa non basta.

E poi la vedo.

Una ciocca di capelli spunta dalle coperte termiche che coprono il corpo steso sulla barella. Neri. Lunghi. Sembrano bagnati di pioggia, anche se non piove. Il corpo viene caricato sull'ambulanza, le mani degli infermieri si muovono veloci, meccaniche, come se lo avessero fatto mille volte. E forse lo hanno fatto. Milioni di volte. Corpi in fin di vita caricati di peso e spinti dentro.

Chiudono il portellone con un tonfo secco, e per un attimo, il rumore mi rimbomba in testa come l'esplosione di una bomba.

Blake è una Molotov che mi scoppia dentro. Non sarà mai altro.

Scuoto la testa. No. Non è lei. Non può essere lei.

Dov'è? La cerco tra tutte le teste che spuntano dai colletti bianchi.

Non è qui. Deve essere qui. Cazzo, deve esserci.

Il cancello si apre, i cardini cigolano, l'ambulanza si muove, scivola oltre il cancello, e il rumore delle ruote sui ciottoli suona troppo forte. Mi volto, le pupille corrono ancora tra la folla, la cercano, un'altra volta. La inventano e la vedono sfumare. Dov'è? Quel presentimento è ancora lì, ancora più forte, insistente, mi stringe il petto. Non la vedo. Non c'è.

Tiro fuori il telefono, le dita si sbrigano a sbloccarlo. Non posso chiamarla. Chiamo Jonas.

Il telefono squilla, una volta, due volte. Risponde. «Lei è con te?» non gli do il tempo di dire una parola, gli vomito la mia ansia nelle orecchie.

La sua voce esita. «Blake? No... non la vedo da ieri.»

Le sue parole mi cadono addosso. Una valanga.

Cazzo.

«Devi venire qui, Joh.»

«Che succede?» ha la voce di chi si è appena svegliato.

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