55 - Brucia -

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(POV Jonas)

Dormo in macchina da quando ho trovato l'album di mio padre.

La sua collezione inquietante di farfalle scorticate.

Vorrei uscire dalla macchina e salire sul cofano, saltarci sopra nel gelo della notte e gridare, sono tornato.

Tieniti pronto, gran pezzo di merda.

Oggi è il giorno del giudizio.

Attraverso il cancello stringendo il volante. Cigola, come sempre, ma il suono dei cardini sembra più grave oggi. Il vialetto è lo stesso, lo percorro in automatico, senza pensare. La ghiaia scricchiola sotto le gomme. Ogni statua, ogni curva, tutto è uguale, ma io no. Parcheggio l'auto, spengo il motore. Resto seduto per un attimo, assaporo il silenzio. Lo stesso che non mi dà pace. Non mi dà pace da giorni.

Scendo, chiudo la portiera dietro di me senza troppa fretta. Manco da poco, una manciata di giorni, eppure sembra una vita. Mi avvicino alla porta di casa, le chiavi che tintinnano tra le dita. Entrare è più difficile di quanto avrei pensato. Il suono della serratura che scatta mi spezza il fiato, e quando la porta si apre, divento un estraneo.

Cammino attraverso la casa, e mi dirigo verso l'atelier. Qualcosa di me sente il bisogno di dirgli addio.

La stanza è irriconoscibile. O forse no. Forse sono io che la vedo diversa, forse senza i miei dipinti non ha più alcun valore. Forse qualsiasi stanza può essere quella adatta. Quattro mura, sono quattro mura, la differenza è ciò che ci metti dentro.

Una volta c'era vita qui dentro. Creatività, passione. Ora c'è solo spazio, e un silenzio che grava sulle macerie della mia stirpe.

Qualunque cosa accada, questo sangue si estingue con me.

Gli White finiscono con me.

Due tele incomplete appoggiate al muro sembrano osservarmi, chiedermi perché abbia scelto di lasciarle qui. Non so perché, ma non ho alcuna voglia di finirle.

Le pareti sembrano assorbire tutto, perfino la luce.

Un sorriso mi si forma sulle labbra, storto, amaro, e tremolante. Cosa pensavo di fare qui? Cosa pensavo di creare? Ho dipinto un'illusione, una bugia che mi sono raccontato per troppo tempo.

Ora so cosa devo fare.

Mi muovo a rilento, come se stessi seguendo un copione che ho già recitato mille volte nella testa. E l'ho fatto. Rido. Passo una mano tra i capelli. So esattamente cosa fare, e voglio assaporare ogni momento.

Ogni piccolo dettaglio di questa fine.

Non deve sopravvivere nulla. Nulla di quello che mi circonda, nulla che mi ricordi chi ero, o chi pensavo di essere.

Solo una cosa deve essere salvata di tutto ciò che si trova qui dentro. Blake. I suoi sentimenti, la sua lettera.

Non importa se non fosse per me.

Percorro il corridoio verso la mia stanza, al buio. Non voglio rivedere il posto in cui ho vissuto, il letto in cui io e lei ci siamo amati. Entro. Apro il cassetto, allungo la mano e tasto tra la biancheria. La lettera di Blake a Victor è lì, piegata con cura, come l'ho lasciata. La prendo, la carta è ruvida sotto le dita, e per un attimo mi sembra che sia l'unica cosa reale in tutta questa casa.

Un pezzo di carta. Cazzo, se siamo messi male.

Scendo in cucina, senza fretta. Qualcuno ha lasciato la luce accesa.

Apro un armadietto. Prendo un bicchiere di cristallo, pesante, liscio. Il riflesso della luce si spezza sul vetro, un piccolo arcobaleno si allunga sulla mia mano. Riempio il vetro di vino. Rosso, scuro, come il sangue.

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