Cap.34: Tempo

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Due anni. Solo due anni erano passati da quel momento in cui Flaminia, con il ginocchio ancora fragile e la mente avvolta in una nebbia di insicurezze e ossessioni, si era rimessa le punte. Ora, a soli 23 anni, brillava con l'intensità di una supernova sul palcoscenico del Metropolitan Opera House di New York. Flaminia Rocchetto, prima ballerina del New York City Ballet, un nome che risuonava come una leggenda moderna nel mondo della danza classica.

Il balletto di Giselle era diventato il suo cavallo di battaglia, il palco dove il suo talento, affinato fino all'estremo, aveva conquistato il pubblico e i critici. Ogni replica dello spettacolo era un trionfo, un evento che trasformava il teatro in un tempio della danza. I biglietti andavano esauriti in pochi minuti, e il pubblico si accalcava per un posto in platea, desideroso di vedere con i propri occhi quella giovane italiana che aveva rivoluzionato il concetto stesso di grazia e tecnica.

Quando Flaminia entrava in scena, il tempo sembrava fermarsi. Ogni passo, ogni salto, ogni movimento era un capolavoro di perfezione. La sua interpretazione di Giselle era stata definita "soprannaturale", una combinazione unica di precisione tecnica e profondità emotiva. Quando si librava in aria, sembrava sfidare la gravità, come se il suo corpo fosse fatto per volare. Eppure, non era solo la sua abilità a catturare l'attenzione. Era il modo in cui viveva il personaggio, come se ogni fibra del suo essere fosse intrisa della storia che stava raccontando.

I critici scrivevano di lei con un entusiasmo mai visto. Un recensore del New York Times aveva descritto Flaminia come "una di quelle rarissime artiste capaci di rendere visibile l'anima attraverso il movimento". Altri la definivano "una forza della natura", sottolineando come avesse raggiunto un livello di perfezione che raramente si incontra, anche tra i più grandi ballerini.

Ma non era solo la sua tecnica a renderla indimenticabile. Flaminia aveva un'aura che oscurava tutto ciò che la circondava. Chiunque ballasse al suo fianco, per quanto talentuoso, sembrava scomparire, ridotto a una comparsa. Non era un atto di arroganza o di volontà. Era la pura intensità della sua presenza. Il pubblico, incantato, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Era impossibile.

Nel mondo competitivo e spietato della danza classica, Flaminia non solo aveva superato ogni aspettativa, ma aveva anche infranto record su record. A soli 23 anni, aveva già ottenuto il titolo di prima ballerina, e il ruolo di Étoile era ormai una questione di mesi, forse meno. La sua carriera era una scalata vertiginosa, un'ascesa che sembrava inarrestabile.

La sua ambizione era diventata una leggenda tanto quanto il suo talento. I critici spesso dicevano di lei: "Il talento da solo non basta. È l'ambizione di perfezionare quel talento che fa la differenza tra un bravo ballerino e una leggenda. Flaminia Rocchetto è la prova vivente di questa verità."

Eppure, sotto la luce dei riflettori, c'era un'ombra. Philipp, che la seguiva ancora da lontano, vedeva nei suoi occhi la stessa fiamma che l'aveva sempre guidata, ma anche lo stesso mostro che la divorava. Sapeva che Flaminia viveva per la danza, ma si chiedeva se la danza l'avrebbe mai lasciata vivere davvero.

Il pubblico non percepiva questa lotta interna. Per loro, Flaminia era perfetta, un simbolo di dedizione e passione. Ma per chi la conosceva bene, ogni salto impeccabile, ogni sorriso durante gli applausi era una vittoria contro quel mostro invisibile che cercava di divorare la sua anima.

Flaminia, però, non si fermava. Non poteva fermarsi. Per lei, il palcoscenico era tutto. E con ogni spettacolo, ogni nuova performance, continuava a scrivere la sua storia, una storia che sarebbe rimasta impressa per sempre nella memoria della danza. Flaminia Rocchetto non era solo una ballerina. Era un mito in costruzione.

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