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"Il tuo sorriso ferito dai pugni in faccia."

Mi arrivò un altro pugno sul braccio, e tentai malamente di soffocare un gemito di dolore.
Sentii la risata profonda di Benjamin, che ancora mi stringeva il braccio. -Andiamo, Beatrice, non dirmi che ti ha fatto male!- Le risate degli altri pochi ragazzi del gruppo si confusero, di nuovo, alla sua. E quel giorno non erano nemmeno tutti presenti.
Il dolore si stava facendo insopportabile, ma sapevo che di lì a poco sarebbe suonata la campanella. Succedeva sempre così. E per fortuna, dopo qualche secondo, il suono stridulo si fece spazio tra i corridoi, troppo presto per molti studenti, ma non per me.
Il viso di Benjamin mutò in una smorfia, e poi ancora in un ghigno mezzo divertito. -Ci si vede domani, Angioletto.- Era così che mi soprannominava, a causa del mio vero cognome _ De Angelis. Ma, in tutto ciò che Benjamin mi faceva tutti i giorni, era quello che faceva meno male.
Appena Mascolo e tutti i suoi amichetti se ne furono andati, non riuscii più a reggere il tutto.
Camminai velocemente in direzione opposta alla classe, mi chiusi in un bagno e cominciai a piangere, silenziosamente. Mi capitava poche volte, ma anch'io scoppiavo, ad un certo punto. È che accumulavo, accumulavo, accumulavo, fino a che poi tutte le parole che avrei voluto dire si trasformavano in lacrime e mi scorrevano sulle guance con un'intensità tale da dubitarne la fine.
Nessuno mi avrebbe sentito. Ci avevo fatto l'abitudine, a vivere senza far rumore.
Nonostante fosse ormai un anno che le cose andavano avanti così, non avevo ancora capito il motivo per cui Benjamin dovesse avercela con me. Ogni giorno, mi picchiava, mi scherniva, mi faceva sentire uno zero. Il tutto, apparentemente, senza un motivo.
In prima liceo era totalmente diverso. Era ancora un bambino con una maglia del fratello, leggermente troppo grande per lui. Due occhioni blu che brillavano di curiosità e uno zaino strapieno di libri e quaderni.
"Ciao." Mi aveva salutato il secondo giorno di scuola.
"Ciao."
"Ti va di dividere la mia merenda? Non ho molta fame."
"Non hai fame? E allora perché l'hai portata?" Chiesi.
"Poche storie. Se non vuoi chiedo a qualcun altro."
"No... Va bene. Grazie."
"Se hai fame perché non hai portato la merenda?" Chiese con un sorrisetto sul viso, porgendomi la merenda. Avevo riso, e mi ero accorta di aver trovato un nuovo amico. Io e Benjamin eravamo l'opposto l'uno dell'altro.
Lui la pelle chiara, io abbronzata.
Lui con gli occhi azzurro mare, io occhi scuri come i miei lividi.
Lui, socievole e disinvolto. Io, timida e goffa.
Quella stramba amicizia era durata meno di niente. Benjamin era cresciuto tutto d'un colpo, da un giorno all'altro. E se ogni giorno veniva da me a dividere la merenda, a un certo punto cominciò a non farlo più. Iniziò a odiarmi senza un motivo apparente, o almeno per me.
Prima si limitava ad evitarmi durante le lezioni e le ricreazioni, ma la situazione cambiò, ancora una volta, troppo in fretta.
Diventò il mio incubo personale e giornaliero, come se non bastassero quelli che mi svegliavano di notte.
Benjamin era un bullo, con me. Niente di più, niente di meno.
Tirai su leggermente la manica della felpa pesante per scoprire lo strato di lividi che copriva la mia pelle. Li aveva mai visti, lui? L'aveva mai visto quanto male mi faceva, quanto dolore mi provocava?
Rifugiai le mani nelle maniche della felpa, scuotendo la testa con le lacrime che non la volevano sapere di fermarsi.
Non lo sapeva nessuno.
Nessuno aveva mai visto quelle botte, a parte me.
I miei genitori pensavano che fuori da casa mia andasse tutto bene. Gli bastava vedere una buona media per pensare che andasse tutto a gonfie vele. Ma, invece, ogni volta che uscivo dalla porta di casa, tutto si faceva improvvisamente in pezzi.
E io cominciavo ad avere paura in un momento ben preciso.
Quando vedevo avvicinarsi un paio di occhi, che ormai conoscevo bene, sempre del solito ragazzo.
Benjamin Alessandro Dardoni, IV B,
il mio incubo.

[Frase a inizio capitolo: da "Vietato morire", Ermal Meta.]

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