19.

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"Ho i tagli sotto i talloni,
e ho perso sangue a galloni.
Ma
guardami ancora in piedi
nelle mie nuove Nike."

Il mio cuore palpitava, piano, ma lo sentivo chiaramente. A mano a mano che quel battito si rafforzava, mi sentivo riaffiorare da un abisso riempito di quell'acqua in cui avevo desiderato di affogare. Ma, stavolta, non afferrai i bordi della vasca per tenermi bloccata sott'acqua, senza ossigeno. Strinsi l'estremità del baratro per tirarmici fuori.
Che potevo aprire gli occhi non mi saltò in testa come una consapevolezza. Semplicemente, le mie palpebre lasciarono la presa e si alzarono, senza alcun preavviso, per lasciarmi vedere il mondo che mi aveva ridotta in pezzi.
Il soffitto della stanza in cui mi trovavo era di un grigio freddo, e tutto il resto _ valutai con una rapida occhiata _ era coperto da un bianco impersonale e algido. Se non cantiamo il pavimento di un verde orribile. Mi ricordava le bottiglie di plastica che da piccola vedevo che le persone gettavano sul bagnasciuga.
Ero in un letto. Lenzuola bianche, cuscino bianco. Avevo addosso qualcosa di bianco.
Accanto a me, un'asta in metallo reggeva una boccetta di vetro piena di un liquido trasparente, che veniva stillato a intervalli regolari in un tubicino di gomma, collegato ad un ago affondato nella mia pelle.
Mi venne un brivido solo a vederlo.
Sul viso sentivo la presenza ingombrante di una maschera dell'ossigeno, che, nonostante i miei polmoni si muovessero debolmente, soffiava ossigeno in continuazione.
E sentivo quella presenza, sempre accanto a me.
Quasi fosse una certezza _ quasi sapessi già dove era _ girai lentamente il collo a sinistra, senza muovere nessun'altra parte del corpo per non provare dolore.
E c'era.
Come avevo intuito, c'era una persona.
L'individuo era seduto su una sedia di plastica blu, che era stata portata il più possibile vicino al letto. Era piegato verso il materasso, a tal punto che la sua fronte lo toccava, ma nonostante non lo vedessi in viso, sapevo perfettamente chi era.
La mia mano debole, immobile e più bianca di quanto ricordavo, era posata sul lenzuolo, a qualche centimetro dai suoi capelli sparsi su questo.
Avrei potuto allungarla di poco e toccarlo. Ero quasi sicura stesse dormendo. Potevo svegliarlo e chiedergli di andare via.
Alla fine, ero in un ospedale, scampata per una fortuna allucinante ad una morte suicida, ancora in pezzi e non sapevo se sarei riuscita ad aggiustarmi in modo almeno accettabile. Ed era colpa sua.
Una scarica di dolore mi colpì poco sopra lo stomaco, e mi fece genere dal dolore mentre mi accartocciavo su me stessa. Sentii il dolore esplodere come centinaia di piccole bombe sulla mia pelle. 
La sua testa si alzò.
Mi sbagliavo. Non stava dormendo.
-Beatrice! Calma, calma, tranquilla, dico sul serio... Dovrei... Oh, accidenti, sei sveglia, non immagini che... Chiamo i medici! Dov'è quel bottone? Maledizione io... Beatrice...-
Sì distolse da quelle parole confuse, lasciandomi in preda al dolore che andava via via scemando, si alzò dalla sedia scansandola con un calcio e corse verso la porta. Si bloccò sull'uscio sorreggendosi a uno stipite e lo sentii dire a voce alta "Si è svegliata!"

Un'ora dopo, ero sola.
Le luci della stanza erano spente, ma dalle tapparelle abbassate penetrava la luce artificiale delle lampade dei corridoi, appena fuori.
Sull'altro lato della stanza, invece, erano ritagliate due larghe finestre, che mi mostravano il cielo stellato e uno spicchio di luna.
A forza di fissare le stelle, consumavo loro e consumavo i miei occhi, ma non ci facevo caso.
Non volevo tornare a guardare il bianco immerso nel buio, l'ago affondato nella mia pelle, il tubo della maschera dell'ossigeno collegato alla macchina...
Il dolore lancinante che avevo provato più o meno all'altezza dei polmoni si era arrestato. I medici mi avevano spiegato che era stato a causa del tubo drenante che aveva liberato i miei polmoni dall'acqua. L'avrebbero rimosso il mattino dopo. Mancava qualche ora.
Benjamin non l'avevo più visto.
Si era alzato, aveva chiamato i medici e quelli lo avevano cacciato fuori dalla stanza. Poi loro hanno dichiarato che dovevo riposare da sola, nient'altro.
Mi aveva spiazzato. Benjamin, intendo.
Perché era lì? E come diamine aveva fatto a sapere di me, del mio tentato suicidio? Lui l'aveva intuito, qualche ora prima, quando avevamo parlato, mentre la luce del tramonto ci faceva da sfondo. Ma lo sbaglio che aveva fatto era stato credere che non avrei avuto abbastanza coraggio da esserne capace. 
E poi, il suo volto... Sembrava distrutto.
Le iridi azzurre apparivano a malapena, incastonate dentro ai suoi occhi rossi e gonfi, completati dalle occhiaie fin troppo evidenti. Non si faceva la barba da giorni, le sue guance apparivano ispide. E i suoi capelli sembravano andare alla deriva. Sparavano in una decina di direzioni diverse.
Non so cosa avessi provato vedendolo così stravolto. Era tutto confuso a causa delle fitte nello stomaco. 
Non volevo rivederlo, ma sapevo bene che prima o poi, il giorno dopo, qualcuno avrebbe aperto la porta della stanza per entrare e parlarmi, e che quel qualcuno sarebbe stato lui.
Non sapevo cosa pensare. E nemmeno dove sbattere la testa, visto che il letto su cui mi tenevano relegata era uno dei più fastidiosamente soffici che avessi mai toccato.
Ne erano venuti a conoscenza tutti, a scuola?
Immaginavo le risate sguaiate del gruppo di bulletti di Ben.
Ma perché lui... Perché lui non era con loro?
Dopo anni in cui mi aveva dimostrato di volermi solo inchiodare a terra, non avrei mai accettato una mano tesa da parte sua.
Eppure i suoi occhi sembravano così vuoti, come se tutto d'un colpo gli fosse strappata via la sua abituale sicurezza.
Che cosa aveva pensato quando aveva saputo di me? Che era colpa sua?
Anche se non l'aveva fatto, però, non riuscivo più ad odiarlo come prima.
Avevo il pessimo vizio di cercare sempre la parte buona delle persone, nonostante tutto ciò che di spaventoso mi avevano fatto.
Volevo scappare.
Prendere un treno o un aereo con un biglietto di sola andata.
Non m'importava che fosse migliore, m'importava che fosse diverso.
Ci sono tanti tipi di infelicità, ed io odiavo la mia. Se ero destinata ad esserlo, volevo esserlo in un altro modo.
Mi sarebbe piaciuto vivere in un posto con il mare vicino. Essere investita dall'aria piena di sale ogni mattina.
E poi non dover mai tornare a casa.
Avrei abbandonato Milano anche subito. 
Dietro ad ogni angolo si nascondevano sempre brutti ricordi.
I miei pensieri furono bruscamente interrotti dalla porta che si aprì.
I medici.
Con qualche parola di troppo, che non ricambiai, mi tolsero la maschera dell'ossigeno e la sostituirono con una cannula, che mi avrebbe aiutato con l'ossigeno ancora per un po'.
Rimossero anche il tubo del drenaggio, che guardai con una smorfia di dolore e sollievo per non averlo più dentro di me insieme.
Se ne andarono dopo almeno un'ora.
Fuori una luce strana e calda era dilagata nel cielo ancora assonnato, e riempiva l'aria, le strade, i grattacieli di Milano e la mia stanza.
Era l'alba.
A causa di quella luce che mi aveva avvolto in uno strano torpore, scivolando all'interno della stanza, quasi non sentii la porta che si riaprì.
Quando mi voltai, sull'uscio, come indeciso se raggiungermi o no, c'era Benjamin.

[Frase a inizio capitolo: da "Ali sporche", Coez.]

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