"It feels like there's oceans
between me and you once again.
We hide our emotions
under the surface
and tryin' to pretend,
but it feels like there's oceans
between you and me."-Ciao-, mi salutò Benjamin, poco convinto.
Sospirai. -Ciao.-
-Siediti.-
Sbarrai gli occhi. Lo guardai con la rabbia distorta dalla paura.
-Scusami. Volevo dire siediti... Se vuoi.-
-La parte del buono non ti si addice per niente.- Commentai.
Si strinse nelle spalle, ridacchiando. -Ci provo.-
Non mi sedetti, ma rimasi in piedi ad osservarlo, quasi a capire se potevo seriamente fidarmi di lui. Seduto su un muretto, i suoi piedi incrociati non toccavano terra e oscillavano leggermente. Era vestito di nero, a parte la maglietta bianca mezza nascosta dalla giacca di pelle. I suoi jeans erano strappati. Mi ricordai qualcosa che mi mozzò il respiro.
Un po' di tempo fa, lui mi aveva spinto. Eravamo appena fuori da scuola. C'erano poche persone. Ero caduta sulle ginocchia e i miei pantaloni si erano tagliati in quel punto, graffiandomi la pelle e coprendola di polvere.
Scossi la testa, tornando alla realtà, è capii che per quanto lui ci potesse provare, guardandolo mi sarebbe sempre e solo tornato in mente il passato, spaventoso e doloroso com'era stato.
-A quante persone l'hai detto?- Chiesi, in un sussurro che per metà si rubò il vento.
-Che cosa?-
-Che io ci ho provato. A uccidermi.-
Sfregò le mani sudate sui jeans. -A nessuno.-
Feci schioccare la lingua. -Preferirei se non mi mentissi.- Balbettai, dondolandomi sui talloni.
-Ma non ti sto mentendo, Beatrice. Non ho detto niente a nessuno.- Qualcosa nella sua voce mi fece venire voglia di piangere per l'ennesima volta in quei giorni. L'aveva detto con un che di dolcezza _ e preoccupazione _ che qualcosa dentro di me sembrò urlarmi "Fidati! Fidati!", ma non lo feci, seguendo il solito schema delle cose. Non mi fidavo, ero salva. Ma non da me stessa.
Volevo chiedergli la ragione che lo aveva spinto a prendermi di mira, ma per qualche strano motivo avevo paura anch'io di conoscerla.
A volte lo coglievo in fallo, mentre mi fissava con lo sguardo di chi vorrebbe cancellare il passato. Ma quello che mi aveva fatto mi sarebbe sempre rimasto dentro come sangue. Ci sarebbe in ogni momento, come le vene che mi attraversavano il corpo.
-Se con me non vuoi starci ti riporto subito a casa, non è un problema. Tutto... Tutto quello che vuoi...- Sussurrò, cercando di nascondere il fatto di essere ferito.
-A dire il vero... No... No niente.- Farfugliai. Mi veniva quasi da ridere per quello che stavo per dire.
-Cosa?-
-Niente ho detto!- Strillai, anche se un sorriso mi tradiva.
-Wow...- Soffiò.
-Cosa? C'è qualcosa che non va? Che succede?- Chiesi, agitata a causa del fatto che stesse fissando me
-No è che... È la prima volta che ti vedo sorridere.- Deglutì, come agitato. -E sei bella quando sorridi.-
Una folata di vento arrivò a mettere sottosopra i miei capelli, mentre a mettere sottosopra il battito del mio cuore era stato Benjamin.
E se fosse stato davvero sincero?
Forse voleva realmente scusarsi.
Ma io? Sarei riuscita a perdonare? Sarei stata disposta a provare ad essere felice nonostante il carico di cose spaventose che mi erano successe?
Se i bulli avrebbero smesso, i miei lividi sarebbero guariti. Ma i lividi che mi rimanevano dentro? Tutte le parole intrise d'odio e umiliazione che mi avevano rivolto? Le ferite lasciate da quelle parole si sarebbero mai rimarginate?
-Ti sei incantata? Ehi? Terra chiama De Angelis!-
Mi scossi. -Cosa?-
-Ti ho chiesto che cosa volevo dire prima.-
-Oh... Era una cosa sciocca, lascia stare.-
-Andiamo, che sarà mai?-
-Stavo per dire che avevo fame! Non preoccuparti!-
-Okay. Tieni il casco. Ti porto in un posto.-
-Cosa... No, no, io quel coso non lo metto e su quella moto non ci salgo.- Dissi, categorica.
-Hai passato cose peggiori, direi.-
Lo sguardo di entrambi si abbassò all'istante. -Scusami sono... Un idiota.- Disse a voce bassa, stringendo il volante della moto.
-Non riesco a controllarmi quando parlo io... A volte ho così tanto dentro di me che non so neanche quello che dico, non so come lo dico. È che ho questa... Inclinazione a fare del male alle persone che tante volte non so come uscirne. Qui dentro-, si indicò la testa con un gesto della mano. -C'è tanto di quel casino e nessuno che mette ordine da così tanto tempo che tante volte non mi accorgo nemmeno di quanto posso ferire. Non ho mai detto niente a nessuno, non ho mai cercato di mettere in ordine me stesso, non... Semplicemente non so come fare. Ecco, vedi, faccio schifo ad esprimere dei concetti e non avrai capito niente, ma... Ci ho provato. Ci sto provando.-
In silenzio, senza dire nient'altri, volli provare a fidarmi.
Non dissi niente mentre prendevo il casco dalle sue mani e mi sedevo sul sedile appena dietro di lui.
Mentre il rombo della moto faceva tremare le mie mani strette al sedile, pensai che, in fondo, eravamo più simili di quanto avrei mai potuto pensare.
Sfrecciavamo per le strade di Milano, passando accanto alle macchine lente, con il vento che mi scombinava i capelli. Erano ormai le cinque; il cielo piano piano cedeva posto al blu più scuro, mentre una striscia di pallido rosa veniva tagliata dai tetti.
Il vento mi strisciava addosso a velocità precipitosa, e i lampioni stavano iniziando ad accendersi, creando sfere di luce chiara che mi macchiavano la vista e correvano accanto.
Dopo dieci minuti circa, Benjamin parcheggiò la noto sul ciglio della strada, e scese senza nessuna difficoltà. Io dovetti fare un balzo per toccare terra. Non mi aiutò. Sapeva che mi faceva paura stargli troppo vicino.
-Andiamo?- Chiese ficcando in tasca le chiavi.
-Non so dove mi vuoi portare.- Gli feci notare.
In effetti, mi resi conto che l'avevo seguito senza nemmeno sapere dove mi stesse portando.
-Ti piacerà, lo so. Soprattutto perché hai fame.- Ridacchiò.
Sorrisi in silenzio, seguendolo mentre attraversava la strada.
-È la seconda volta che sorridi.- Mormorò.
Aggrottai le sopracciglia. -È un problema?-
-No-, disse. -No, mi piace farti sorridere.-
Fece una pausa. -Mi dispiace solo di avertelo spesso ucciso, quel sorriso.-Lo seguì fino ad un locale, il cui nome era scritto a lettere di acciaio attaccate al muro. Le sue pareti davano sulla strada e sulla macchia di alberi che l'affiancava. Come aprì la porta ed entrammo, l'aria calda avvolse le mie dita intorpidite, facendomi stare meglio.
Benjamin si diresse verso il bancone, prese un foglio e me lo porse.
-Scegli tu. Pago io.- Mi sorrise.
Non ero nella condizione di protestare, dato che non avevo soldi con me.
Diedi una veloce occhiata al menu e decisi. -Trancio di margherita e The alla pesca.-
Comunicò al ragazzo al bancone l'ordinazione, aggiungendo cappuccino e brioche per lui.
-Alle sei di sera? Cappuccino?- Chiesi, ironica.
Alzò le spalle. -Ho fame anch'io. E amo il caffè.-
Andammo a sederci sugli sgabelli alti davanti alla grande vetrata.
Il cibo arrivò dopo qualche minuto, senza che nessuno facesse parola.
Uno si sarebbe scervellato nel capirci, io così strana e lui all'apparenza così sicuro, vedendoci seduti vicini davanti alla vetrata di un bar, che mangiavano una pizza e l'altro croissant. Erano lì, quei due, fermi, come se guardassero scorrere il mondo fuori dalla finestra. In realtà però, in quel momento il loro mondo stava scorrendo tra di loro.
Da quando mi avevano dimesso dall'ospedale, pochi giorni prima, non ero andata a scuola, e Benjamin non l'avevo più visto. Avevo tante di quelle domande da fargli che non me le ricordavo nemmeno tutte, ma una fra tutte era la più importante.
-Perché hai detto tutto ai miei genitori?-
Per poco non sputò il cappuccino fuori dalla tazza.
Aspettò a rispondere.
-Avevo un'altra scelta?-
-Mentirgli...- Risposi, poco convinta.
-Come hai fatto tu?- Scosse la testa. -Non volevo nascondermi, ma prendermi le mie responsabilità, una volta tanto. Le bravate che ho sempre fatto, il bullo che sono stato... Ho improvvisamente visto la situazione per come realmente era.-
Annuii, e non risposi.
-Perché hai acconsentito a passare del tempo con me?- Chiesi.
Sorrise, senza guardarmi. -Potrei fare la stessa domanda a te.-
-Sì, ma te l'ho chiesto prima io. Rispondi.-
-Mi hanno chiesto di farlo e hanno detto che forse ti avrebbe fatta stare meglio. Ci sto... Provando, ecco.-
Una macchina ci illuminò. Ormai i lampioni erano tutti accesi.
-E tu? Perché non scappi? Me lo meriterei.- Disse fissando un punto impossibile da definire, verso la strada.
-Non lo so. Ma hai ragione tu. Forse sarebbe più naturale farlo.-
-Forse.- Mormorò.
-Posso farti un'altra domanda?-
Sospirò. -Certo.-
-Hai detto di aver fatto un errore, e di averlo pagato diventando il capo del gruppo. Qual'è stato quello sbaglio?-
-Lo sapevo...- Disse tra sé e sé. -Mi sembrava di averti detto che te l'avrei raccontato, ma non poi così presto.- Disse seccamente, con una punta di irritazione nella voce.
-D'accordo.- Dissi a voce così bassa che stentai pure io a sentire.
-Hai finito? Bene, andiamo.- La sua voce ormai aveva lasciato troppo spazio alla rabbia, e con movimenti bruschi afferrò la giacca di pelle appoggiata sulla sedia e spinse malamente questa sotto il tavolo. Attraversò il locale in poche, furiose falcate e uscì dal locale sbattendo la porta.
Sospirando, presi la mia giacca e lo seguii. Era già lontano.
-Benjamin!- Lo chiamai.
-Cosa! Cosa c'è? Vuoi ancora chiedermi di quella merda di casino che ho innescato? Di tutta quella maledetta storia che mi ha fatto diventare quell'idiota che sono ora?!- Urlò, svuotando i polmoni di tutta la loro aria. Aveva il fiatone. Le sue parole si erano frantumate in piccole nuvolette di vapore, che disegnavano volute e spirali nell'aria.
Su quel marciapiede, sembrava essersi alzato un muro a dividerci. O forse quel muro c'era sempre stato. Ci faceva vedere cosa c'era dall'altra parte, ma non ci permetteva di raggiungerlo. Nulla ci avrebbe mai permesso di toccarci le cicatrici, di guarirle, di guardarci dentro.
-No. Non voglio saperlo.- Sussurrai. Mi voltai, e camminai nella direzione opposta alla sua moto. -Vado a casa.- Gli dissi, con voce tremante.
La presa sul mio polso arrivò quasi subito.
-Tu vieni a casa con me.-
Vincendo i brividi di paura che mi attanagliavano il corpo, strattonai la mano fino a quando non fu libera.
-Vado in autobus.-
-Non vai in autobus.
Tu.
Vieni.
In moto.
Con me.- Mi era talmente vicino che diatinguevo con scarsa chiarezza i suoi occhi azzurri, spalancati in modo spaventoso.
Deglutii. E bastò quell'attimo di silenzio per farmi trascinare da lui verso la sua moto.
Il casco me lo mise lui.
Come aveva fatto prima, mi mise le mani poco sopra i fianchi, mi sollevò e posò sulla parte più alta del sedile.
Mi dava fastidio essere toccata da lui, stargli vicino, ogni cosa. Quella sfuriata aveva risvegliato i miei fantasmi e qualcosa di cui non avevo mai creduto alla fine.
Realizzai la verità.
Lui non aveva accettato di passare del tempo con me per provare a farsi perdonare, ad aggiustare le cose, per farmi stare meglio.
Semplicemente, non aveva avuto altra scelta.
Dopo poco più di dieci minuti inchiodò davanti a casa mia.
Saltai giù. Lui no. Mi tolsi il casco e glielo porsi.
-Non serve che ti presenti anche la prossima volta. Stasera è stato abbastanza.-
Non mi sentii di doverlo ringraziarlo o di dirgli qualsiasi altra cosa.
Nè di salutarlo.
Ancora prima di entrare in casa, udii la sua moto rombare e allontanarsi.
E pensai che, in fondo, non avremmo mai potuto restarci vicini a lungo.[Frase a inizio capitolo: da "Oceans", Seafret.]

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Ficção Adolescente"Forse ti vedrò, in classe, con quel tuo solito guardare fuori dalla finestra come se ci fosse davvero qualcosa da vedere. Se ci penso _ voglio dire, se penso a te _ capisco che dopotutto non ho bisogno di nient'altro." 14.12.2017, #11 in teen ficti...