25.

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"We're just two lost souls
swimming in a fish bowl
year after year.
Running over the same old ground
what have we found?
The same old fears."

-Non mi è mai passato nemmeno per la testa che lo avrei detto a qualcuno, poi però sei arrivata tu. Ti ho vista lì, il primo giorno di scuola, con quella maglietta enorme e lo zaino così pieno di libri che sembrava dovesse scoppiare da un momento all'altro. Mi ci è voluto un po' per decidermi ad avvicinarmi a te. Eri diversa in un modo così speciale. Ti avevo visto subito, il primo giorno di scuola, in quell'auditorium in cui c'erano così tante persone che i posti a sedere mancavano. Ho visto subito come tentavi di metterti da parte per il tuo non sapere cosa fare, come tentavi di tenerti sullo sfondo.-
Non riusciva a stare fermo, e continuava a torcersi le mani, aprirle, chiuderle a pugno, ficcarsele nei capelli e afferrarsi la testa come per tenersi insieme, camminava nervosamente in lungo e in largo per il breve spazio che ci era concesso dal pianerottolo, come desiderando di tenersi al riparo dai suoi fantasmi e dalle ombre che lo avevano inseguito per anni. Ma sapevo meglio di lui che la notte sarebbe stata la cosa meno scura, silenziosa e dolorosa che avremmo mai potuto affrontare. Il buio più insopportabile te lo porti dentro, non ti abbandona mai.
-Beatrice...- Mi chiamò con voce spezzata. -Mi guardi, per favore?-
Maledizione. Se solo non avesse detto per favore.
Alzai leggermente lo sguardo, per annullare la sua altezza rispetto a me.
-Sei la prima a cui lo dico.
E sarai l'unica.-
Annuii. Non c'era bisogno che mi chiedesse di non dirlo a nessuno. Lui non l'aveva fatto con me, ma non era solo questo.
Sapevo quanto fosse difficile da quando avevo dovuto descrivere tutto ciò che avevo passato a parole davanti ai miei genitori.
Sapevo quanto facesse male essere sbattuti faccia a faccia con quel dolore che non ti ha fatto dormire la notte, che più volte sembrava ti volesse togliere il respiro.
-Poco dopo averti conosciuto sono entrato a far parte della compagnia capeggiata da Filippo. Era bastato andare a un paio di feste a cui erano presenti tutti loro. Filippo era il capo vero e proprio. Tutti lo seguivano come fossero pecore. Lui fumava, loro sgomitavano per trovare una sigaretta al più presto. Si è sempre portato appresso un carisma che lo ha fatto diventare capo in poco tempo.
L'ho conosciuto in discoteca. Avevo in mano il cocktail più pesante che avevano potuto prepararmi al bar. Lui mi si era avvicinato solo per complimentarsi della scelta. Sapevo che a scuola lo temevano tutti, che poteva fare cose molto spiacevoli a chi gli faceva un torto, o semplicemente a chi gli stava antipatico. Filippo è cinico, quasi sadico. Non gliene frega niente se qualcuno soffre, anche se per colpa sua. È egoista se non con pochi. In quei pochi ci sono rientrato anche io.-Deglutì, e io feci piano, come per non spaventarlo, nel sedermi accanto a lui con la schiena contro il muro. La nebbia sembrava voler divorare tutto ciò che incontrava.  
-Loro si conoscevano tutti dalle scuole medie: erano cresciuti assieme, mentre io ero il nuovo arrivato. Dovevano "testarmi". Realizzare se potevo entrare in quel gruppo di amici da una vita. Continuavano a ricordarmelo. Eppure, da quattordicenne ingenuo, credevo che quel "test" consistesse nel passare sempre più tempo con loro mettendo tutto _ compiti, studio, famiglia, altri amici, altri parenti, me stesso _ in secondo piano. Cominciai anche a marinare la scuola, a falsificare la firma dei miei per le giustifiche, a fumare. I miei si arrabbiavano con me quando tornavo a casa in piena notte, e mi mettevano in punizione, mi ripetevano instancabilmente che stavo prendendo la strada sbagliata. Lo sapevano, nonostante non avessi mai detto loro niente, di tutti questo miei nuovi "amici".-
Lasciò cadere le gambe, che teneva piegate. Sembrava devastato. Pensai che forse era così che si era sentito, vivendo ciò che mi stava per raccontare.
-È arrivato il primo colpo.
La morte di mio padre.-
Tutto intorno a me sembrò svanire di colpo, togliendomi il respiro.
Il ragazzo che mi aveva continuamente picchiato e offeso, quando tornava a casa da scuola e la sera, non trovava suo padre.
Non riuscii subito a riprendere a respirare.
-Infarto. Lui era appena tornato dall'ospedale in cui lavorava. Era piena notte. C'era il buio più totale, dentro e fuori di me, con la differenza che dentro di me non si sarebbe accesa una luce, mai. Mentre fuori c'erano quelle luci lampeggianti rosse e blu, il suono incessante e assordante dell'ambulanza. A volte lo sento ancora, quel suono. Mi fischia nelle orecchie di notte, quando non riesco a dormire.-
In uno scatto, quasi l'avesse deciso lei, la mia mano destra andò a posarsi sulla sua sinistra. Quasi potesse servire a qualcosa.
-Mia madre urlava, piangeva sul corpo di mio padre, coperto da quel lenzuolo bianco. Sono stato sulla soglia della porta della mia camera per più di un'ora, mentre il dolore mi uccideva le gambe e un altro dolore, molto più forte, mi immobilizzava  tutto. Aspettavo che qualcuno mi spiegasse, che mi dicessero perché, che mi dessero qualche maledetta risposta. Nessuno l'ha mai fatto. E quelle risposte le aspetto da anni.
L'ultima frase che mi aveva rivolto era di rimprovero. Eppure c'era così tanto bene dentro. Il bene che mi voleva.
Mi disse Non sei un oggetto. Non devi farti capitanare. Sei una persona, e in quanto tale hai una differenza fondamentale dagli oggetti. Qual'è il loro posto lo decidono gli altri. Il tuo posto lo decidi tu
Ricordo con così tanta precisione l'ultima volta che l'avevo visto uscire dalla porta per andare al lavoro. Quando era tornato, stavo già dormendo. Non ho mai visto il suo viso addormentato per sempre. Mai. Per tanto tempo non volli accettare quello che era successo. Mi ero convinto del fatto che lui era uscito di casa quando l'avevo visto io, e che non era ancora tornato. Ma sarebbe ricomparso, prima o poi. Semplicemente, per mesi non ho accettato che quel dolore, oltre a provenire dal fatto di averlo perso, fosse anche a causa del mio essere cambiato. Era il mio cambiamento che mi aveva tenuto lontano da lui, negli ultimi mesi.-
Si fermò, come nel sentire una certa fitta nel petto. Qualcosa di famigliare.
-Avevo troppa rabbia repressa e non me ne accorgevo. Erano passati diciassette giorni dalla morte di mio padre.-
Chiuse gli occhi.
-Filippo non capiva. E non poteva farlo. Non ha mai sofferto, non sa cosa significhi. Rideva di qualsiasi ferita vedesse.
Pensava che quei diciassette giorni fossero bastati e avanzati per superare ciò che mi era successo, e che fosse il momento giusto per quel suo dannato test.-
Una smorfia che implorava lacrime gli inondò il viso.
-Una pillola. Tutto qui?, pensai. Anche se avevo capito cosa diamine era, con tutta la maledetta rabbia che mi bruciava dentro, la presi.
Ci volle poco, troppo poco, per cominciare a vedere rosso, a tratti nero, sfocato, macchie. Filippo l'aveva fatto ancora, me l'aveva raccontato. Diceva che ti sentivi come se il cervello si spegnesse. Tutte le sensazioni positive _ eccitazione, felicità _ raddoppiavano. E ti sentivi leggero come zucchero filato, come se tutto paresse così insensatamente sensato al tuo cervello spento.
Per me non fu così.
La felicità non la provavo più da giorni. Dentro di me c'era solo rabbia.
L'ira più pura che avessi mai provato.
La sentii pesare sempre di più.
Una, due, tre, cento volte che quella originale.
E stavo male, più di prima. Era come se il dolore mi volesse squarciare in due, fracassarmi il petto, spaccarmi la testa.
E sapevo che l'unico modo per non permettergli di distruggermi era buttarlo fuori.
Picchiai il capo.
Lo picchiai così forte che ne portiamo cicatrici ancora oggi.
Un altro colpo.-
Sentii l'eco della campanella.
Non mi mossi.
-Filippo se n'è fregato del fatto che gli ho spaccato una gamba. Per lui avevo superato il test a più che pieni voti.
È come in un fottuto branco di animali. Chi batte il capo, diventa capo. Ora sai che cos'è successo.- Concluse, brusco.
Per un po' il silenzio ci divise, ma non staccò le nostre mani.
-Mi dispiace.- Dissi poi, a voce bassa. Ero sincera.
-Ti dispiace?- Quasi rise. -A te dispiace per me? Beatrice, credo tu abbia presente tutto quello che ti ho fatto passare. E ancora ti dispiace per me? No! Non dovresti, diamine! Dovresti dirmi che me lo sono dannatamente meritato, che non ho fatto nulla per migliorare, che sono fermo allo stesso punto da più di tre maledetti anni.-
Strinsi di più la sua mano, sentendo il gelo della sua pelle.
-Tu non potevi fare niente. Niente, rispetto a quella rabbia. Hai altre colpe, lo sappiamo entrambi, ma non quella di esserti fatto guidate dalla rabbia, quella sera.-
Lasciò che i suoi occhi si perdessero nei miei, per un po'. Che l'azzurro dei suoi occhi si mischiasse con il verde dei miei. Che i nostri mostri si abbracciassero forte, per provare a sentirsi meno soli.
-In quella vasca, Beatrice... In quella vasca, a tentare di morire, avrei dovuto esserci io.- Crollò con la testa sulla mia spalla, e io non lasciai la sua mano. Quasi come se quel contatto potesse essere l'unica nostra àncora per il freddo fuori e dentro di noi.
Rimasi zitta.
Pensai che certe cose non dovessero essere rovinate dalle parole.

[Frase a inizio capitolo: da "Wish you were here", Pink Floyd.]

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