8.

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"Credi che sia facile?
Credi che sia semplice?
Vai a farti fottere.
Credi che sia una storia semplice?
Cielo senza nuvole?
Un amore utile?"

Quella notte non feci incubi.
Era tutto vuoto. La mia vita, il mio cuore, io.
Mi vestii per andare a scuola, seguendo lo schema di una monotonia quasi nauseante. Non feci colazione, salutai i miei genitori, sempre ignari di tutto ciò che stavo vivendo, e uscii per raggiungere la scuola. Le cuffie stavano appallottolate da qualche parte in fondo allo zaino, e il cellulare ce l'avevo in tasca, spento come lo era dal mattino di ieri. Nessuno mi avrebbe mai cercato. Che differenza c'era se l'avrei tenuto acceso o spento?
Dopo i soliti dieci minuti di camminata, passando sul sentiero lastricato come implicava il cartello piantato nell'erba, entrai nell'edificio principale. Salii le scale come tutte le mattine, attraversai il corridoio come tutte le mattine, entrai in classe e mi sedetti al mio posto, come tutte le mattine.
Qualcosa turbò quella noiosa tranquillità. O meglio, qualcuno.
Benjamin entrò in classe poco dopo di me, lasciò cadere lo zaino per terra, prese una sedia e facendola stridere sul pavimento la portò accanto al mio banco.
-Ti sei decisa a venire senza fare la difficile oggi?- Chiese senza salutare.
-Non verrò. Te l'ho già detto.-
-Senti, idiota.- Sbattè la mano sul tavolo e si alzò in piedi. Trasalii. -Ieri hai fatto la tua scenata da bambina capricciosa? Ora ne paghi le conseguenze. Se Sona prende di mira te, e l'ha già fatto, prende di mira anche me. Siamo legati ormai. E non m'importa di che cosa diamine vuoi fare tu. Nell'ora di filosofia siamo una squadra.-
Contrariamente alle altre volte, lo fissai negli occhi mentre mi parlava, duro. Avevano riacquistato quella luce cattiva e fredda che li illuminava di solito.
-Va bene.- Mi uscii.
-Va bene?- Tolse le mani dal banco, sorpreso che fosse stato così facile convincermi. Ma il fatto era che non mi lasciava scelta. Non mi lasciava mai scelta. Quando mi parlava con quella voce, succhiava via la paura che mi provocava per costruirne un'armatura invincibile. E sarebbe stato impossibile, per me, oppormi. Ero troppo debole, e lo sarei rimasta sempre.
-Va bene.- Conclusi.
Lui annuii e per un momento rimase fermo sul suo posto, incerto. Poi scosse la testa, come per scacciare una qualche idea che gli era venuta, prese lo zaino e se ne andò.

Mi fermai nel punto che Benjamin aveva stabilito il giorno prima, dopo le lezioni. Arrivò dopo aver salutato il suo solito gruppo di amici a cui si era aggiunta qualche ragazza, che mi guardavano ridacchiando tra loro. Mi voltai dall'altra parte.
-Possiamo andare.- Dissi. Uscii dal cancello senza aspettare che rispondesse qualcosa, e mi diressi a destra.
-Casa mia è dall'altra parte.-
-Eh?-
-No, casa mia dico. È a sinistra. Non a destra.-
-Ah, certo.
-Mh.-
Camminavano l'uno di fianco all'altra ma distanziati di almeno due passi.
Visti da lontano probabilmente sembravano due mondi totalmente opposti che si incontravano chissà come per la prima volta. Ma, pensandoci, lo eravamo davvero.
Casa sua non era molto distante dalla scuola, solo cinque minuti. Era una villetta bianca circondata da un giardino piccolo ma curato, con macchie di piante colorate e rigogliose e fiori ai lati e agli angoli. Benjamin aprì il cancello automatico, e lo seguii quando entrò.
Senza quasi accorgermene, uscii dal sentiero di ghiaia che portava alla porta per raggiungere un angolo del giardino. Un enorme pianta di rose lo governava. I fiori erano aperti, ma mancava poco perché i petali cadessero. I petali erano color salmone, spruzzati di punti color giallo, come le poche lentiggini che comparivano sul mio volto. Erano le rose più belle che avessi mai visto. Sembrava quasi che quei due colori si fossero incontrati per sbaglio, quando invece era stato qualcuno ad averlo voluto. Colori che non c'entravano nulla l'uno con l'altro, eppure si erano trovati insieme, costretti a convivere a contatto. E, se così legati non volevano starci, era un problema irrisolvibile solo loro.
-Ti piacciono?-
Scossi leggermente la testa per risvegliarmi nel sentire la voce di Benjamin.
-Scusa. Dovevamo andare in casa.-
-Non importa ora. Ti ho fatto una domanda.-
-E io non ti ho risposto. Andiamo ora.- Deglutii. Avevo un groppo in gola che non andava via.
-Prima rispondi, poi andiamo.-
-Sì, mi piacciono. Contento?- Sbottai.
-Anche a me. Sono le mie preferite.-
Quindi gli poteva davvero piacere qualcosa che non fossero ragazze, tatuaggi e picchiare qualcuno di indifeso? Incredibile.
-È un esperimento di mia madre. Le piaceva l'idea che due colori completamente differenti si incontrassero. Voleva come dimostrare che possono convivere insieme pur essendo quasi l'opposto.-
Di colpo staccò gli occhi dalle rose, e io assimilai ciò che aveva appena detto.
-Hai ragione. Andiamo in casa.- Disse ancora, e si avviò verso la porta.
-Vieni pure.-
Esitai un attimo, e poi, le gambe tremanti, misi piede nella casa de bullo che mi perseguitava da anni.

[Frase a inizio capitolo: da "Stupido hotel", Vasco Rossi.]

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