Prologo...per chi non ha letto gli altri della catena dei divertenti!

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Le costellazioni sono infinite, come le stelle. Chi potrebbe mai dire di averle contate?! Chi potrebbe dire di averle ammirate per una notte intera, aspettando la fatidica stella cometa?! L'aspetti come quando aspetti un regalo di Natale, e sei in trepida attesa, il cuore scalpita, l'adrenalina entra in circolo nel tuo corpo, e resti disteso inerme, con gli occhi puntati verso l'alto, troppo preso da mille pensieri per chiuderli e lasciarti andare. Perché quando aspetti, che sia un'ora o una vita, speri sempre che ne vale la pena.
Come me. Mi misi a contare le uniche stelle che ora ricoprivano il soffitto della mia stanza. Quelle stelle luminose di notte, che trovavi nei pacchi di merendine. Non li compravo per mangiarmi quelle schifezze incartate con dentro una briciola di cioccolato. Le compravo per attaccare le stelle, dalle più grandi alle più piccole ma pur sempre significanti, e vederle nel buio della stanza, prendere vita e creare una magia.
Le fissai, portandomi entrambe le braccia incrociate, dietro la testa, contandole, e ripercorsi un'istante nella mia testa che viaggiò senza volere, verso quel ricordo ormai lontano.

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-Secondo te quante ce ne sono?- domandò con la sua voce tenue, voltando un attimo il viso verso di me, ed incontrai i suoi occhi azzurri splendenti dal chiarore della luna pallida, mentre teneva le ginocchia piegate, piantando la suola delle superga con i brillantini, sulle tegole del tetto per non cadere. Notavo che aveva paura, e non si spostava più di tanto. Inconsapevole che l'avrei aiutata sempre a rialzarsi, inconsapevole che senza di lei non aveva senso contarle.

-Miliardi, forse di più. Se le contiamo, magari vediamo la stella cometa, come avevano detto i nostri genitori. Ci stai?- le chiesi eccitato, vedendola arricciare il naso come a pensarci, per poi annuire appena ed iniziare a contarle con il naso all'insù e lo sguardo piantato verso quel mantello stellato.

Lì eravamo noi, lì eravamo amici. Ma come tutti, tutto cambia. Niente resta com'è. Sarebbe un'illusione e poi una delusione scoprire che se pensi che tutto resti intatto, e poi scompaia nel nulla, divenendo il niente. Divenendo odio.
Solo una cosa avevamo in comune ora...le nostre famiglie. Amici da una vita, case attaccate, un albero a separare ciò che non potevamo e non volevamo sopportare.

Joshua:
Feste del cazzo. Sono sempre stato obbligato a partecipare alle cene, a rimpatriate di cui non me ne fregava altamente niente. E per cosa poi?. Per vedere la loro figlia altezzosa e spocchiosa. Mi divertivo a prenderla in giro. Certo s'infuriava. Lei era la perfettina. Mia madre mi ripeteva sempre quanto fosse brava nei compiti, ragazza brillante. Era una rottura. La odiavo, era ufficiale. Sarebbe rimasta da sola, o forse un santo le avrebbe fatto la grazia di avere un povero ragazzo, che le avesse fatto da schiavo. Rompi palle.

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Certe volte ti soffermi a pensare, che se avresti prestato più attenzione, non avresti espresso certi desideri. Come sempre, non si avveravano. Tu aspetti con agonia è il cuore che scalpita furioso nel petto, e nel momento che vedi quella stella cometa passare, esprimi l'unica cosa che invece non dovresti esprimere. Convinta che comunque non si avvererà. Convinta che anche le monetine che butti in quelle fontane che ritieni magiche, resteranno lì nel fondale freddo di marmo, e nessuna di quelle monetine prenderà vita, al tuo desiderio.

Mi rigirai la penna tra i denti, oscillandola appena, solo per vedere i pon-pon rosa attaccati, tintinnare tra loro.
Potevo dire di essere una ragazza studiosa, ma la formula che mi si parò davanti, sembrava non volesse risolversi, proprio come succedeva con chi avevo difronte.
Alzai lo sguardo, verso la finestra, trovando l'unica persona che era diventato il mio nemico, prepararsi davanti allo specchio, con un modo talmente vanesio da farmi raccapricciare.
E pensare che prima quei desideri che esprimevamo e quelle stelle che contavamo e aspettavamo, erano il nostro segno di un'amicizia. Ma niente resta com'è, niente è per sempre. E tu non puoi farci assolutamente niente, se non chiudere il libro, posare ogni cosa in un cassetto, ed alzarti da quella sedia per andare dall'unica persona che ti capisce, oltre ad un barattolo di gelato...la tua migliore amica.

Carlotta:
Compleanni, natali...qualsiasi festa anche la più bizzarra, lui era lì. Era una presenza costante. Frustante quasi.
Non perdeva occasione per prendermi in giro. A scuola, quando i suoi non lo vedevano. Era uno stronzo. Lo odiavo, era ufficiale. E niente mi avrebbe fatto cambiare idea. E quando dicevo una cosa era quella.

Pov. Carlotta

Ci eravamo trasferiti a New York, subito dopo il mio battesimo. Non avevo ricordanza di Firenze, ma ogni volta che andavo a trovare mia nonna e mio nonno, sentivo di far parte di quella città piccola ma splendida.
Il centro con le tipiche vie, piene di negozi e turisti.
Le pietre che se non stavi attenta rischiavi di slogarti una caviglia, o entrambe.
Ma amavo indubbiamente anche New York. O meglio Manhattan.

"Carlotta, dove vai?" Mi Riprese mia madre come una soldatessa, solo molto più dolce, mentre stavo per uscire e mi aggiustai allo specchio i lunghi capelli castani, che sembravano ribellarsi, ed un filo di lip gloss a contornare le mie labbra a forma di cuore.
Assomigliavo molto a mia madre, e mio padre ce lo faceva presente. O come chi ci scambiava per due sorelle.
Lui aveva gli occhi verdi ed i capelli mori, mentre mia madre aveva dei capelli castani tagliati a caschetto e gli occhi ambrati.

"Te l'ho detto. Vado a casa di Amanda. Dai tornerò presto ok?" Sbattei le ciglia folte, nella sua direzione, con voce dolce, attorcigliandomi la sciarpa intorno al collo, afferrando il cappotto sull'attaccapanni.

"Se fai tardi, chiamo tuo..." non la lascai finire che le cinsi il collo con le braccia.

"Ti voglio bene brontolona" le scoccai un bacio sulla guancia, guardandola scuotere i capelli castani con veemenza, ed uscii dalla porta, che richiusi con un tonfo.
In un attimo guizzai senza una ragione logica, poiché non sempre vi è, gli occhi sulla casa affianco alla mia.
La casa del ragazzo che più odiavo.
Quello che un tempo mi faceva sorridere, che sapeva farsi detestare ed adorare allo stesso tempo.
Scossi la testa indignata, sussurrando un "Stronzo" che portò via il vento, incamminandomi.

Pov. Joshua

"Eh canestrooo. Grande campione" gridai come in delirio, mantenendo un tono di voce basso.
Era una sorta di rito, tirare nel piccolo canestro, appeso all'anta dell'armadio, dove la palla rimbombò sul pavimento.

In realtà cercavo solo di tenermi in allenamento, ma la mia vera vena e passione, era la melodia che crescano delle corde, era l'armonia che fondeva il plettro con le mie dita.

Mi issai dal letto, che gracchiò appena, togliendomi la maglia ed appallottolandola per lanciarla sul letto.
Come una calamita attaccata al bulbo oculare, voltai lo sguardo, verso la finestra davanti alla mia.
Quella della spocchiosa altezzosa, figlia dei miei vicini.
La notai alzarsi e stiracchiare le braccia in alto, come se fosse stata cenerentola che aspettava gli uccellini per farle un vestito, e qualche stupido topo.

"Spocchiosa" sussurrai tra me e me, afferrando una maglia pulita e scendendo le scale di fretta, come se avessi avuto dei pattini al posto delle mie all star.

"Amore, ci vediamo stasera ok?" Affermò Mio padre Brian, aggiustandosi la giacca nera, mentre mia madre sembrava divorarlo con gli occhi, appoggiata al mobile della cucina, sorseggiando del caffè.
Ed entrai in cucina, quasi arricciando il naso.
Erano due genitori che amavano tenersi in forma. Mia madre aveva dei capelli biondi ed a boccoli, e due occhi verdi.
Mentre mio padre era la mia fotocopia. Biondo con due occhi azzurri che a detta sua, a scuola, ai suoi tempi, facevano strage di cuori. La stessa strage che con mio immenso piacere, ora facevo io.

Vidi mia madre Annuite lievemente, mentre mio padre si avviò verso di lei, dandole un bacio sulle labbra.
"Che schifo. Potete evitare di fare questa cosa, in mia presenza?" Li redarguii con un senso di volta stomaco, di prima mattina, prendendo il cartone del latte in frigo, e scossi la testa schifato.

"A stasera campione" mi salutò mio padre con il nostro solito pugno. Mia madre ci riteneva due bambini.
Infatti alzò gli occhi al cielo. Ormai si ero abituata ai nostri versi strani, come sosteneva lei. In realtà facevano cool, è mio padre era un grande.
"Quante volte ti ho detto di non bere dal cartone. I bicchieri esistono apposta" mi rimproverò, mentre sbruffai e posai il cartone del latte nel frigo.

"Dai mamy. Comunque devo uscire, ci si becca" m'infilai la felpa, tirandomi su i capelli biondi, pettinandoli.

"Ehi ehi. Fermo qui signorino. Punto 1: con chi vai?. Punto 2: ci si becca? Sei serio?" Mi guardò di traverso vedendomi sorridere, e scoccarle un occhiolino.

"Vado dal coglione di David. A dopo. Va bene?" Le spiegai arreso, mettendomi il cappuccio, per poi aprire la porta, uscendo.

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