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"Pronto?" Chiese la sua voce dopo qualche squillo.

"Ciao"

"Ma ciao! Hai finito le prove immagino. Come sono andate?"

"Ottima deduzione, mio caro Watson." Lo sentii ridere e poi continuai "Comunque tutto bene, grazie. Cosa fai?"

"Sono qui a negozio: non c'è praticamente nessuno oggi, tu?"

"Fino alle 16 sono libera, che ne dici se dopo pranzo faccio un salto a salutarti?"

"Beh dico che trovo sia un'ottima idea e che ne sarei felicissimo"

"Allora siamo d'accordo! Ci vediamo dopo"

"A dopo".

Chiusi la linea, rimanendo a fissare la sua foto sullo sfondo.

La macchina era parcheggiata al sole e se fino ad ora avevo creduto che lasciarla al sole a giugno non avrebbe comportato grandi problemi, mi ricredetti all'istante non appena la aprii.
Mi investì una botta d'aria calda degna del deserto più torrido.

Sapalancai tutti i finestrini, lasciando che la corrente mi scompigliasse i capelli mentre guidavo.

Arrivai a casa in poco tempo: per le strade di Carrara non c'era molta gente quel giorno.

Devo ammettere che rientrare nel mio appartamento da sola fu come tornare alla solita malinconia.

La solitudine si abbatté su di me come un macigno.

Non c'era nessuno ad aspettarmi a casa e nonostante sapessi le cose andava in bene sotto tutti gli altri punti di vista, trovarmi lì seduta sul mio divano bianco, senza nessuno con cui parlare, mi faceva stare male.

Ed ecco che l'ansia di trascorrere la vita in un appartamento vuoto tornava ad assalirmi.

Mi ricordava di quando, da piccola, passavo alcune delle mie giornate a piangere la mia solitudine e la mia malattia.

Era in questi momenti che avevo bisogno di mio padre, di uno dei suoi abbracci consolatori.

Passai una mano sul suo pianoforte a muro.

Quando chiusi gli occhi mi rividi all'interno dell'ambulanza, il suono assordante delle sirene spiegate, il ronzio del defibrillatore.

Quella speranza che mi si era insinuata nel petto vedendo il suo sguardo a momenti illuminato da un briciolo di vita e la sua mano stretta nella mia.

E ricordai le parole che dissi:
"Non te ne andare, senza te non ce la faccio. Ti prego".

Vedi papà? Ce la sto facendo. Ci sto provando.

Asciugai in fretta una lacrima che silenziosa aveva cominciato a scorrere sul mio viso: feci un respiro profondo e andai in cucina per cominciare a prepararmi il pranzo.

Mangiai da sola, difronte alla tv.

Volevo un abbraccio di Francesco; volevo che le cose mi apparissero semplici e che non fossi sempre lì a raccapezzarmi su come sarebbe andata la mia vita.

Mi diedi una sistemata e mi truccai giusto un po'.

Presi la borsa e uscii di fretta, diretta verso Francesco.

Ed eccomi di nuovo davanti a quel negozio di musica dove tutto era iniziato.

Da dentro proveniva il suono di un pianoforte.

Entrai salutando, ma non ricevetti risposta.

Andai verso il suono dei tasti del piano, immaginando a chi appartenessero quelle mani che li premevano con delicatezza sulle note di "Per Tornare Liberi".

Dall'ingresso passai ad un'altra sala allestita con le percussioni e cominciò ad arrivarmi all'orecchio anche il suono della voce di Francesco.

Vidi il pianoforte a coda infondo alla saletta successiva.

Mi avvicinai al pianista dotato di maglietta con i polli e gli misi una mano sulla spalla.

Si girò senza smettere di suonare e di cantare, mi sorrise come soltanto lui sapeva fare e si spostò per farmi posto sul sedile, mi sedetti accanto a lui, poggiando la testa sulla sua spalla e pensando a quanto fosse azzeccata la canzone in questo momento.


"E adesso voglio il conto... che spavento...
questo è il tempo per tornare liberi...
veramente liberi
questo è il tempo per tornare liberi...
veramente liberi
questo è il tempo..."

Finì l'ultima strofa, lasciando che le ultime note suonate sfumassero nell'aria facendo pressione su un pedale del piano.

"Sei fantastico, come al solito..." dissi piano, chiudendo gli occhi mentre mi accostava le labbra alla fronte.

Appoggiò la testa alla mia e rimanemmo così per un po'.

Come l'ariaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora