(Ri)Elaboriamo il lutto con un Amen

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Ero di nuovo lì su quella strada che ormai avevo rivisto più e più volte nella mia mente: il sole di dicembre splendeva alto, riscaldando l'aria non troppo fredda.

Indossavo un leggero K-way al posto del giubotto da moto.

Davanti a me, alla mia destra, sfrecciava la moto di mio padre.

Vedevo la sua figura piegarsi ora da un lato ora dall'altro per assecondare l'andamento della moto nelle curve.

Eravamo circondati dagli alberi e l'asfalto aveva lasciato il posto ad una ghiaia fina, irregolare e giallognola.

Ad un certo punto la sua figura si accasciò in avanti e all'inizio non capivo cosa stesse succedendo ma poi, rallentò senza tirarsi sù e compresi.

La mia mente elaborò le informazioni in modo istantaneo: cercai di accostarmi al lato della motocicletta di mio padre.

Aveva perso conoscenza, ma la mano destra girava ancora l'accelleratore.

Feci una cosa probabilmente folle: mi sporsi verso di lui per cercare di fermarlo.
Non avevo idea di quanto fosse stupida la mia mossa fino a quando non l'ebbi fatta.

Scivolai dalla mia moto, aggrappandomi alla parte sinistra del manubrio di quella di mio padre, che miracolosamente non mi cadde sopra.
Per qualche metro strusciai sul selciato: il Kway tirato sù per via della posizione assurda e così anche la maglietta.
La pelle bruciava strusciando sui sassolini che sembravano entrarmi nella carne.
Miracolosamente riuscii a raddrizzarmi, forse per quella strana forza che ti pervade nei momenti di panico.

"Papà!" Chiamai, ancora e ancora senza ricevere risposta.

La moto non andava veloce e riuscii a fermarla, adagiandola a terra.

Mio padre era completamente incoscente: cercai il battito cardiaco tastando il collo morbido: niente, come sospettavo.

Gli sfilai il telefono dalla tasca, composi il 118 e chiamai accostandomi il telefono all'orecchio tenedolo con la spalla mentre facevo il massaggio cardiaco che avevo imparato al corso di primo soccorso, anche se una gelida consapevolezza si insinuava piano nella mia mente.

Il volto davanti a me aveva i soliti lineamenti familiari e la barbetta, un tempo marrone, aveva cominciato ad ingrigire.
Era di un pallore mortale: avrei preferito non riconoscerlo.

Spiegai alla voce al telefono dove ci trovassimo.

Ero sola, completamente sola, come scoprii dopo innumerevoli urla disperate.

Continuai il massaggio cardiaco, cercando di coordinarlo con la respirazione bocca a bocca, seguendo le istruzioni dell'uomo al telefono.

E poi le luci lampeggianti dell'ambulanza illuminarono il volto esanime di mio padre.

Tornai al mio garage, troncando il fiume di ricordi.
Mi appoggiai al muro con una mano: la memoria sembrava pesarmi fisicamente sulle spalle.

Sbattei le palpebre un paio di volte: dovevo ricacciare indietro le lacrime che minacciavano di scendere sempre più copiose.

La Ducati 848 nera era ancora lievemente graffiata sul lato destro.
Ebbi una fitta al petto: niente di fisico, niente che potessero risolvere delle pillole.

Infilai il casco, montando a cavalcioni sulla moto e facendola scendere dal cavalletto.

Uscii dal garage, percorrendo abbastanza lentamente la salita che mi portava alla strada.

E via dopo via, piazza dopo piazza, guardando Carrara che mi scorreva accanto, al posto del corpo di mio padre accasciato sulla moto, prevalsero nella mia mente i ricordi felici legati al motociclismo.

Optai per farmi un giro in collina.

I palazzi e le case di Carrara si diradarono sempre più fino a quando, al posto dei numeri civici, le case avevano nomi.

Le Alpi Apuane si ergevano imponenti davanti ai miei occhi; in lontananza una delle cave di marmo bianco. Lo stesso marmo del David di Michelangelo.

Mi fermai in un piccolo spiazzo panoramico e scesi dalla moto per sgranchirmi le gambe: avevo perso l'abitudine di stare in quella posizione e la mia schiena non mancò di farmelo notare con qualche doloretto.

L'aria era più fresca di quella di città.

Mi accorsi solo in quel momento che il giubbotto da moto mi faceva sentire un gran caldo, ma dopo la mia ultima esperienza e viste le cicatrici che mi aveva regalato, il pensiero di togliermelo non mi sfiorò nemmeno.

Guardai l'ora: scherzando e ridendo si erano già fatte le nove e quaranta.

Mi chiesi se Francesco avesse già aperto il negozio e decisi che tornando sarei potuta passare a salutarlo.

Mi infilai di nuovo il caso, tirai giù la visiera e partii di nuovo alla volta di Carrara.
Ero tornata ad essere in sintonia con la moto: la mano destra girava sapiente l'accelleratore; il peso del corpo si spostava a seconda delle curve in modo istintivo.

Tornai a percorrere le stradine di Carrara e intravedendo un piccolo posto per la moto proprio davanti al negozio di musica, ce la infilai immediatamente.
Francesco era fuori dalla porta che prendeva una sigaretta dal pacchetto.
Se fosse stato una statua avrei potuto definirlo "gravitante" sulla gamba destra, visto che tutto il peso poggiava su di essa, mentre l'altra era portata leggermente avanti e un po' piegata.

-Ma non è una statua ne' un'opera d'arte- direte voi.
Della prima ne siamo tutti sicuri, ma della seconda?!

Si infilò la sigaretta tra le labbra e poi mi guardò, probabilmente senza riconsocermi.

Smontai dalla moto e mi tolsi il casco, lo chignon mi aveva lasciato libera una ciocca sul lato destro del viso.

Spalancò gli occhi un po' sorpreso, alzando le sopracciglia e sorridendo mi venne incontro, togliendo la sigaretta dalle labbra.

Indossava i suoi immancabili jeans neri ed una semplice maglietta gialla.

Non si aspettava decisamente di vedermi lí e per di più in moto.

"Ei!"
Lo salutai chiedendomi se per caso non dovessi cercare un saluto differente visto che stavo sempre a dire -ei-.

"Ma sei...sei..." non trovava le parole, cosa decisamente strana.

"..in moto?" Suggerii io stupidamente.
Lui rise prima di rispondere.

"Anche. Ma 'raggiante' ti si addice di più"
Rimase lì sorridente, a guardare ora me ora la moto.

"Ieri mi hai fatto pensare, cosa che fra l'altro ti riesce molto bene, e ho deciso di rispolverare alcune vecchie abitudini." Dissi indicando con il pollice la Ducati.

Mi diede un lieve bacio sulle labbra, come a dire "sono contento" e fui felice che non lo disse a parole: i baci erano meglio.

"Una volta potrò fare un giro insieme a lei, Signorina?" Assunse un tono antiquato ed elegante.

"Quando lei desidera, Signor Gabbani. Non appena sarà libero dalle sue quotidiane occupazioni, mi consideri pronta a partire."

Alzò la mano destra, come a dirmi di aspettare e si affacciò dentro il negozio, la sigaretta ancora in attesa tra le dita.

"Alessia?" Chiamò ad alta voce.

Come l'ariaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora