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Tergiversò, ci girò intorno, disse mille frasi senza senso e poi, quando glielo chiesi per l'ennesima volta, me lo disse. Mi disse in lacrime che nostra figlia non c'era più, era morta già da almeno un paio di giorni prima del mio svenimento. Mi disse che mi avevano operata, che mi sarei ripresa presto, che avrei ancora potuto avere figli 'appena stai bene se vorrai ci riproviamo' disse. Annuii, piansi tra le sue braccia.
Mi guardai la pancia da sotto il camice e non la vidi più.  Non c'era il rigonfiamento che mi ero abituata a guardare, a toccare. Non avrei più sentito calci, tonfi. Non avrei più potuto dare colpa agli ormoni per le mie pazzie e le mie voglie strane e soprattutto, pensai, non c'era più niente che mi legava ad Arek.
Mi raccontò che mia sorella lo aveva accusato di averla stuprata e di averla perseguitata, mi giurò che non era vero, pianse molto. Gli risposi che avrebbe dovuto denunciarla, che la vittima non era mia sorella ma lui. Sputai tanta rabbia su di lei, dissi che non la sopportavo, che aveva reso la mia vita un inferno e che ora voleva rovinarci.
Parlammo molto, o almeno, lui parlò molto. Io mi limitai ad ascoltare, ad annuire. Mi restò sempre accanto, era da me ogni giorno il più possibile. Vennero i ragazzi della squadra del Napoli, qualche loro moglie, qualche fidanzata. Una volta venne anche mio padre; mia madre e mia sorella non si fecero vedere nonostante fossero state avvisate. Me ne fregai, ormai non le consideravo più parte della mia famiglia.
Arek fu l'unica costante di quella settimana in ospedale, c'era sempre anche quando non volevo. A volte andava via perché lo trattavo male e i medici gli dicevano che ero stanca e che dovevo riposare, altre volte lo mandavo via direttamente io. Nonostante questo, tornava sempre. Mi aggiornava sulla sua situazione, mi disse che non avevano trovato prove contro di lui, che quasi sicuramente gli inquirenti avrebbero archiviato il caso e lui sarebbe potuto tornare tranquillo. Mi ripetè più volte che mi rivoleva a casa, che da solo non riusciva a stare, che gli mancavo e che mi amava. Già, disse proprio così in più di un'occasione. Lui mi aspettava a casa ma io non volevo vedere niente che mi ricordasse la bambina, mi avrebbe fatto soffrire troppo. Glielo chiesi e si occupò di togliere tutte le cose che avevamo acquistato durante la gravidanza.
Quando tornai a casa mi sentii subito meglio, Arek non faceva che rendermi la vita più semplice, mi stava sempre intorno. Anche troppo. A volte mi faceva innervosire, mi trattava come se fossi di porcellana. Piano piano mi lasciò più spazi e cercammo di riprenderle la nostra vita regolare.
Per me non era facile, quando lui non c'era piangevo. Mi sentivo triste, incompiuta. Mi davo la colpa di ciò che era successo, 'se te ne fossi accorta prima che qualcosa non andava, magari ora la piccola stava ancora bene' mi ripetevo.
Non tornai a lavoro, mi presi un mese di malattia. Arek non si stava più allenando con la squadra ma passava le giornate in questura o dall'avvocato.
Non sapevo come comportarmi con lui. Quando lo guardavo mi ricordava nostra figlia, la gravidanza. Mi faceva male anche solo sfiorarlo nonostante lui fosse perfetto come sempre con me. Aveva pazienza, mi sopportava anche quando ero intrattabile, non mi fece pressioni di alcun genere. Il problema ero io, ero io che non capivo perché amarlo mi facesse stare così male.
Non gliene parlai subito e mi sforzai di migliorare nel rapporto con lui.

Heartless | Arkadiusz MilikDove le storie prendono vita. Scoprilo ora