Quella pace solo interiore [revisionato]

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Avrebbe potuto trovarne mille di motivi per respingere quell'uomo ed odiarlo, eppure ne bastò uno solo per accoglierlo accanto a . Nonostante desiderasse il male nei suoi confronti non sarebbe mai riuscita a causarne, non era debole ma solamente ingenua e dentro di sapeva che non le avrebbe fatto davvero mai del male.

Terminammo in modo trionfale, nessuno aveva sbagliato una nota ed eravamo stati tutti perfettamente a tempo ma non arrivò neanche un applauso e forse solo qualche occhiata di approvo. Meglio di niente, pensavo ci fischiassero e sbattessero fuori per qualsiasi motivo, sinceramente. Passò qualche ora e noi tornammo a suonare ininterrottamente, le dita stavano cominciando a farmi male ma non volevo affatto lamentarmi per quello.Nella pausa tra un brano e l'altro cercavo con lo sguardo i volti che più avevo incontrato quei giorni e neanche io sapevo bene la ragione; mi sentivo più a mio agio, forse, sapendo di conoscere almeno qualcuno in mezzo a quella enorme folla di gente, pronta a divorare ognuno di noi come un branco di squali.

Mi focalizzai sul tavolo in cui erano seduti Johann, Josef ed un altro paio di persone. Una donna accanto al corvo gli somigliava un po', aveva un'aria pesante e snob, pareva criticare qualsiasi cosa di quella serata. Solamente una stronza simile poteva dialogare con lui.
Non negai il disgusto che provavo nel vederli mangiare e ridere assieme, pur sapendo di essere nel mezzo di una guerra e di commettere i peggiori crimini dell'umanità; ma ovviamente a loro non importava, finché fossero in buona salute non avrebbero smosso neanche di un centimetro la propria coscienza, lasciandola marcire con la loro stessa anima. Dannati. Li odiavo.
Cominciavo ad odiare anche Berlino e tutte le città tedesche, la scuola, il teatro, la civiltà. Sembrava una barzelletta ma alla quale potevano ridere solo le persone che avevo letteralmente davanti.
Con la coda dell'occhio vidi Josef alzare il suo sgardo verso il palco, verso di noi. Involontariamente, girai ancora il viso incrociando i suoi occhi, come le altre volte passate e, persino lì, mi sentii giudicata e fortemente a disagio. Tirai fuori un sospiro profondo e cercai di concentrarmi unicamente sulla musica.

Ora avrei dovuto suonare completamente da sola un brano classico di Bach, il G minore.
Era anche una delle mie preferite di Johann Bach, la sapevo suonare ad occhi chiusi così lentamente le note mi portarono proprio a ciò, lasciando che le dita viaggiassero da sole e producessero quel ritmo energico seppur sconfortante, a me pareva così, giusto. Mi causava come un binomio di sensazioni: da una parte la voglia di voler agire e correre, affrontare qualsiasi cosa mi si proponeva davanti, dall'altra terribile rassegnazione ed ansia, l'essere perseguitata e raggiunta dai propri incubi per poi lasciarsi avvolgere nel buio più terrificante.
Come se riuscissi a sentire a fondo ogni nota, come se vedessi nella mia mente ogni scena; la dinamicità mi dava quella ambigua solitudine in entrambi i modi.
Mi scesero delle lacrime ma dovetti continuare, pensando che se avessi smesso proprio allora mi sarebbe costata veramente la vita.

Smisi di piangere non appena sfiorai l'ultimo tasto e tacque l'ultima nota. Mi ero portata con me anche quel ricordo straziante, uno dei tanti ricordi che in un lager avrebbero fatto un'orribile fine, dilaniati dall'oppressione. Almeno aveva scaturito felicità in me per un breve istante, il caro profumo di casa, di famiglia, consapevole che fossero oramai del tutto finiti. Mi asciugai le lacrime e, quando lanciai un'occhiata agli altri internati, li ritrovai quasi estasiati, alcuni tedeschi, i bambini e perfino Josef stesso. Il tutto durò pochi secondi, poi tornarono ad ignorarci completamente e riprendere a mangiare.

La festa terminò nelle prime ore del mattino ed intanto noi avevamo sempre meno tempo per riposare. Dovetti tornare alla mia baracca così salutai gli altri per poi dover percorrere tanta strada a piedi con un soldato con la pistola puntata dritta alla schiena.

-Will, me ne occupo io.- Impose una voce rigida e ben famigliare.

-Schneider, certamente.- Salutò col braccio ed andò via il soldato semplice.

Josef mi scortò fino alla baracca e per tutto il tragitto mi sentii ancora più a disagio anche se la stanchezza sopravvaleva; barcollavo e a momenti avrei ceduto.

-Mantieni gli occhi aperti, giudea.- Cercò di intimorirmi riuscendoci perfettamente.

-Lei fa di cognome Schneider, signore?- Mi pentii di aver parlato, quando avevo molto sonno ero solita dire cose senza volere... Mi portai una mano alla bocca temendo il peggio.

-Sì. Perché questa domanda?- Chiese lui sempre piuttosto rigido, nel frattempo camminavamo ancora e la pistola la sentivo sempre meno a contatto con la schiena.

-No, ecco, avevo un amico che fa di cognome Schneider... Nulla, mi scusi.- Risposi perplessa. -Eitel Schneider...- Aggiunsi a voce più bassa, ricordando il volto del mio caro amico.

-Un mio cugino si chiama così.- Mi sorpresi della sua affermazione. -Sarà un omonimo.-

Arrivammo al campo, di fronte alla mia baracca ed in tutta la zona regnava un silenzio tombale.

-La ringrazio.- Stavo davvero sparlando per la stanchezza.

-Cosa?!-

-Mi ha portato fino a qui, non mi ha sparato quando le ho rivolto la parola... Io... Non lo so... Non so che pensare... - Barcollai più di una volta, non ce la facevo più così caddi ma mi riprese appena in tempo. Allora mi sentii anche peggio.

-Mi scusi, davvero. Io... Io sono troppo stanca...-

Rose e spine [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora