Il Corvo del campo [revisionato]

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Una foto ritraeva tre ragazzini in una distesa di fiori e piante germogliate. Una di loro, dai capelli corvini e sempre sciolti, sorrideva a trentadue denti, mentre alcune ciocche le coprivano l'immacolato volto. Sullo sfondo, un altro, dai capelli castani e scompigliati dal vento, aveva teso il pugno verso l'alto in segno di vittoria, sentendosi il più forte di tutti gli uomini. Alla loro destra, la terza, biondina e con due belle treccine che le ornavano il volto rotondo, fissava l'obbiettivo con curiosità, mentre reggeva sulle cosce un cesto di fiori.



Non era neanche l'alba ma vagavo per casa in cerca di un dolce conforto tra quelle mura desolate. Abitavo da sola da un po' ma, in essa, rivivevo i calorosi ricordi dei miei famigliari, immaginando ancora le loro voci ben chiare e distinte.

Ero appena uscita dalla doccia ed i capelli gocciolavano ancora. Mi sedetti accanto al caminetto ed accesi la radio, sperando di trovare qualche melodia che potessi apprezzare. Allora, poggiai la schiena nuda alla poltrona, per poi chiudere gli occhi e cedere a quel brano malinconico, in armonia con la mera notte.


Sobbalzai all'improvviso sentendo dei forti rumori alla porta ed una voce autoritaria gridare frasi meccanicamente.
Mi coprii con la vestaglia, contemplando ancora il caminetto, finché quei rumori si ripresentarono più violenti. Eppure non mi sembrò di aver alzato troppo il volume della radio.
 Non avevo altra scelta così aprii adagio la porta, per poi deglutire alla vista di un soldato dall'aria minacciosa ed arrogante.

-Posso fare qualcosa per lei..?- Chiesi titubante.

Era il soldato Weim, amico di Mikael. Entrò sbattendo bruscamente la porta e mi guardò con astio, chiedendomi conferma dell'identità di Lianne Mich.

-Devi venire con me. Muoviti.- Non aggiunse nulla, se non guardarmi di sottecchi come se si trovasse davanti ad un mostro. Scosse la testa ed allungò una mano tentando di prendermi ma mi scostai sbattendo al muro alle mie spalle. 

-Dove dovrei andare? E perché?-

Seccato, giustificò l'irruzione con la scoperta della mia vera identità: in alcuni registri, documenti dei miei avi, c'era la conferma della mia provenienza da una famiglia ebrea. In quel preciso istante, potei sentire il mondo crollare su di me, come fossi nefandezza fatta persona, o quel che rimaneva di una persona, all'epoca. Non sapevo di esserlo, né tanto meno che lo fossero i miei genitori. Quel che era peggio, la mia bocca si sigillò mettendomi in una posizione anche più scomoda, nel frattempo lui blaterava, vagò per i corridoi di casa, rivolgendosi un'ennesima volta a me per sapere dove si fossero nascosti i miei famigliari.

-Sono morti.- Deviai il suo sguardo, sentendo chiaramente solo un ''mi spiace'' freddo, di circostanza. I miei nonni mi avevano lasciato da poco; presero il posto dei miei genitori morti per via di un incidente, molti anni prima e, sfortunatamente, avevo pochissimi ricordi di loro.

Il soldato mi strattonò improvvisamente e, in quella azione, poco mancava che la vestaglia si allargasse scoprendo il mio corpo effettivamente nudo. Avanzai verso la mia camera, chiedendo almeno la decenza del vestirmi e lui non obbiettò ma, invece, mi seguì accuratamente, cosicché percepissi la sua presenza riluttante.

-Ti aiuto.- Con voce roca si avvicinò lentamente prendendosi ogni libertà di toccarmi la schiena e le spalle. Trasalii ad ogni suo tocco maledetto, sentendo chiaramente la sua risata compiaciuta e divertita dalla situazione. Mi fece alcuni complimenti volgari che contribuirono solo a farmi  arrossire violentemente. Era talmente lascivo che a stento trattenevo le mani dal tirargli uno schiaffo in pieno volto. Con poca grazia, mi afferrò stringendomi a sé e cominciò a baciare l'angolo delle mie labbra, veemente, come appartenessi propriamente a lui. Volevo tanto ribellarmi ma dal mio volto usciva solo un pianto nervoso, seppur mi dimenassi risultava tutto inutile; i suoi gemiti sovrastavano i miei lamenti. 

Non sembrò importargli nulla del pudore, bloccandomi da ogni possibile via d'uscita ed usandomi, proprio quella notte e proprio su quel letto. Dieci minuti dopo si alzò finalmente  ma io rimasi lì, stremata, interdetta, con le guance rosse dalla vergogna e nuovamente senza abiti. 

 Mi ordinò a gran voce di salire su un camioncino attirando l'attenzione dei pochi cittadini ancora svegli. Senza obiettare, salii guardandomi un'ultima volta intorno, aggrappandomi all'ultimo briciolo di speranza che avevo di incrociare lo sguardo di Samantha o di Eitel.

-Ti porto personalmente a Buchenwald. Contenta?- Aggiunse con stizza, osservandomi ancora con ambiguo interesse, aspettandosi un qualche accenno sommesso da parte mia ma tutto ciò che ricevette fu un mio spontaneo  -fottiti- di cui non mi sarei mai pentita. Volevo apparire forte, prepotente quanto lui, ma la verità era che stavo morendo dalla paura. La mia vita stava finendo molto più rapidamente di prima. Quanto avrei resistito lì? Un'ora o un giorno? Magari due, se avessi avuto fortuna? Non ne avevo idea ed era ciò che più mi frustrava, l'ignoto. La non certezza di tornare vivi o direttamente soccombere lì, qualunque luogo fosse.

Ma la speranza non potevano togliermela mai.




-Oh, ufficiale Weim, Johann Weim, che bello vederti.- Un altro soldato si avvicinò a noi, salutando Johann con un abbraccio apparentemente fraterno.

-Josef, sono contento di vederti. Senti, ho questa ebrea, portala nel blocco di Marina.- Si sbrigò l'uomo dalle maniere poco gentili, spintonandomi verso l'altro, come stesse passando un oggetto. La sua immane forza mi fece andare quasi a sbattere contro l'altro, tutt'altro che contento di avere a che fare con me. Non capivo nulla, tenevo solamente la testa china e pregavo silenziosamente di non subire altre mostruosità.

-Subito, amico.- La sua voce, a quella distanza breve, risultò più rigida e chiara. Questo andò spedito, non curandosi della sua velocità alla quale non riuscivo a stare molto al passo.
Voltandomi vidi per un'ultima volta l'infame, Johann. Il peggior essere umano che avessi mai incontrato.
Ghignò ancora una volta e, nella sua irriverenza, si permise di salutarmi scuotendo una mano imitando bene il gesto di un bambino innocente.  
I suoi capelli neri come la pece ed i suoi occhi azzurri trapelavano solo tratti negativi e superflui, per rispecchiare un essere nient'altro che mediocre.
Da allora mi venne un appellativo più adatto a lui: il corvo; per i suoi capelli delle stesse sfumature della sua anima, più macchiata del petrolio.

La notte ancora fonda non aiutava la mia vista, intravidi solo varie baracche fatiscenti, colme di altre persone, altre donne e ragazze, sprofondate nel sonno. Eseguii gli ordini, ovvero entrare in una di esse,  non immaginando affatto che tutto ciò potesse essere solo l'inizio di un vero incubo. Non pensavo a nulla, non avevo metabolizzato ancora niente, percepivo solo tanta, tanta paura.

Rose e spine [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora