L'amore nella guerra [revisionato]

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Accadde davvero; tra quel filo spinato e quell'aria pesante, tra le urla e le sgridate, due cuori si unirono, proprio ad Auschwitz.
Eppure non poteva essere vero, lui era tedesco lei era ebrea, veniva dalla Cecoslovacchia; ma quando scese da quel treno e cominciò a cantare, tutto parve fermarsi e lui si perse nella sua così rara bellezza.
Per conquistarla, le portò in dono dei biscotti ed un bigliettino dove confessava il suo amore.
Era il 1942 e per tre lunghi anni si può dire che l'amore ad Auschwitz ci sia stato.
Loro si chiamavano Franz Wunsch ed Helena Citronova.


Era venuto ottobre e pochi giorni prima era morta Sarah. Quel giorno fu uno dei peggiori al campo, da allora sognavo la scena così straziante ogni notte da riuscire a dormire sempre meno. Accadde appena di mattina, proprio in un ennesimo litigio tra lei e Federica, davanti il nostro blocco. Non avevo capito il motivo ma Sarah esplose urlando contro Federica, picchiandola, rotolandosi a terra e causando tanto casino che una SS arrivò e uccise la donna, lasciando inerte l'altra. Egli era, da quanto avevo potuto dedurre, l'uomo con cui Federica andava a letto per guadagnarsi la sopravvivenza. Assurdo, semplicemente assurdo perché Sarah non meritava di morire. Da allora, anche Federica diventò ancor più vile, la sentivo lamentarsi per qualunque cosa e tutta la mia ammirazione nei suoi confronti era scemata; non era più la valorosa ragazza che cercava di dare grinta al gruppo, anzi, non vi era più alcun gruppo. Mi illusi ancora una volta di credere all'unione che poteva fare la forza ma non era affatto così.

Quel giorno non ebbi nulla da fare per la mattinata stranamente, eravamo rimaste in poche e Marina ci informò dell'arrivo di un treno quel giorno stesso.
Ero seduta a terra e contavo le pietre, separando quelle più grandi dai sassolini.
D'un tratto sentii il rumore assordante del treno che stava frenando sulle rotaie, fermandosi di fronte i cancelli.
Mi avvicinai il più possibile, ero al confine della mia zona segnato dal filo spinato e da lì potevo osservare bene le persone scendere. Erano per lo più bambini, troppi bambini, non ne vidi più lì da tre settimane. Potevano avere dai tre ai sei anni, non di più. Mi si strinse il cuore vedere come le madri tenevano le mani dei loro piccoli ignorando del tutto gli ordini e le minacce dei soldati.
Ma tra loro c'era Josef. Era fermo, a debita distanza, e smistava la gente in vari gruppi, solamente indicandola.
La mia attenzione tornò sul treno, quando sentii un pianto disperato di una delle donne che mi fece trasalire, fino a quando una delle SS avanzò e senza soffermarsi troppo sfilò la pistola sparandole un colpo secco alla testa mentre ella, nel frattempo, teneva ancora la mano alla sua bambina di circa quattro anni. Si bloccò il respiro in gola, desideravo tanto urlare ma tutto il mio corpo rimase rigido ancora intimorito dal forte sparo.

Ripuntai lo sguardo su Josef e notai mi stesse fissando per l'ennesima volta in un modo del tutto indecifrabile, enigmatico ma poco mi importava. Non stava facendo niente, lui come gli altri, era impalato lì ed eseguiva sempre lo stesso ordine impassibile. Le povere persone entrarono dai cancelli nel campo di Buchenwald, si avvicinarono al centro del campo e dalla mia parte era tutto ben più visibile: vi erano diversi anziani che non trasparivano alcuna emozione al contrario dei giovani agitati che non riuscivano a rimanere fermi e diedero la vita pur di fare almeno un tentativo di fuga. Alcuni piccolissimi non cercavano più neanche la calda mano dei genitori e, al suo posto, vi era quella di alcuni soldati che li stavano semplicemente allontanando via. 

Le mie gambe tremavano alla visione di tutto ciò ma presi coraggio e feci una delle scelte che mi avrebbero portato ai peggiori guai: corsi verso i bambini e li guardai uno ad uno, esasperata ed incapace di trovare soluzione a quello strazio. A separarci c'era quel maledetto filo, ma riuscii ad aggirarlo poco più lontano arrivando rapidamente a loro; come il cuore mi suggerì di fare li abbracciai forte e la bimba che vidi stretta a sua madre prima, mi guardava con due grandi occhi azzurri.

-Tu chi sei?- Domandò con infinita dolcezza.

-Mi chiamo Lianne...-

-Io mi chiamo Brigida. Tu sai perché la mia mamma non si alza più da terra? Gli uomini mi hanno detto che sta riposando.- Guardò triste il povero cadavere.

-TU! Torna alla tua baracca, muoviti!- Mi urlò un soldato, strattonandomi verso la mia zona per poi andare via. Guardavo i piccoli e loro guardavano me spaventati ma sarei tornata da loro fra pochi minuti.

Qualcuno si affiancò a me e, voltandomi, vidi Josef. Non era affatto arrabbiato, avrei detto più rilassato. Me ne infischiai della sua presenza e persino quando tentai nuovamente di correre da quei bambini lui non osò bloccarmi. Si avvicinò soltanto per guidare loro da qualche parte ma mi opposi e fu allora che mi lanciò uno sguardo pieno di sfida, non prima di avergli gridato contro parole offensive. Esitò ancora ma fu Brigida a prendere parola, urlando il mio nome impaurita e pregando di rimanere al mio fianco.

Un altro soldato volle ripetere il gesto ripugnante della pistola puntandola sul visino angelico della bambina che piangeva ancora ma allora non ci vidi più. Non poteva farlo. La piccola ora era immobile, sconcertata, al centro dell'attenzione di molti. D'istinto mi buttai in avanti, arrivai di fronte a lei, mi girai di schiena e la strinsi forte a me, più forte che potevo, non volevo farle sentire il rumore sordo di quel luogo, le urla dei soldati, il grilletto della pistola premuto in quell'istante.

Sentii bene lo sparo, poi un altro. Mi colpirono le spalle e scatenarono una reazione istantanea così che percepii il bruciore spargersi lungo tutto il braccio. Sentivo chiaramente il sangue fluire attorno i buchi della maglia, come se tutto d'un istante avessi perso completamente le energie e volessi solamente chiudere gli occhi per recuperarle. 

Rose e spine [IN REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora