49. Di filo spinato e di zucchero filato

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"Ma tu, figlia mia, tu ti trascinerai nell'oscurità e nel dubbio come la notte d'inverno che arriva senza una stella. Qui tu dimorerai legata al tuo dolore, sotto gli alberi che avvizziscono, finché il mondo intero sarà cambiato e i lunghi anni della tua vita saranno consumati."

Il signore degli Anelli – Le Due Torri (2002)












Orlo di spalle premuto contro la parete dura, anonima nella sua identità, fredda, noncurante

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Orlo di spalle premuto contro la parete dura, anonima nella sua identità, fredda, noncurante. Ali inavvertibili ed eteree vengono schiacciate implorando pietà, le percepisco spezzarsi, interrotte da quella recisione netta distaccandole dalla mia effigie, dall'apice della schiena.


"Perché? Perché noi umani dobbiamo per forza essere privati delle nostre ali? Perché dobbiamo sopportare questa condanna?".


Forse, perché siamo troppo ingombranti per essere issati su, nell'aria? Forse, perché siamo aggravati di un fardello troppo eccedente... quale la nostra entità, nucleo di pensieri, riflessioni, sensazioni?

I fili di tendini, i fasci di muscoli, la ramificazione di vene, il rivestimento di pelle, il fluire del sangue — l'ancoraggio che contorna il mio corpo comprime ogni lambello delle mie ossa, quasi a manifestare la tangibile volontà di stritolarmi, rompermi in una moltitudine di pezzi minuti. Singolare volere, volere vitale.

È il peso dell'essere questo che sento premermi addosso con eccessivo fervore, un numero che varia costantemente e in assenza di inutili rumori, un numero che può rasentare un qualcosa di sopportabile – sostenibile dall'intelaiatura dello scheletro –, quasi vacuo, un numero che può trasformarsi al pari di un'incudine – opprimente e che spezza quando ci si distrae troppo –, colma di tutto.

E in questo istante mi sento appena spezzata, appena piegata, è venutasi a formare alla luce una piccola quanto fastidiosa cavillatura, proprio all'altezza della mia essenza. Salgemme impiastrate di rimorsi, sensi di colpa e contrizione s'insinuano dentro i pori della mia pelle, alla ricerca del punto migliore per attecchire, ambendo a distruggere il lindore che vi si cela.

Quel tenue che ero riuscita ad adunare con impegno, abnegazione e altrettanta arrabbiatura.

Perché lui si bea delle disgrazie altrui. Perché lui tutto ciò che offre è nient'altro che filo spinato. Filo spinato che avvolge e strozza, che attorciglia e ferisce, che aggomitola e rende il silenzio in urla disperate, che avviluppa e ti porta via.

A lui piacciono le urla disperate, anche quelle che non si sentono — soprattutto quelle che non si sentono. Le urla che riecheggiano da una parte all'altra della psiche, che scatenano burrasche impetuose e senza fine nell'animo. È il suo pane, morbido per i suoi denti, per le sue zanne grondanti di tossine, carezzate ogni dì di parole, frasi; e più quest'ultime le sfiorano, più divengono infettate, perfette per spiccare il volo dalle sue labbra e per seminare sofferenze, triboli dal quale è impossibile sfuggire.

Quando Apollo s'invaghì di AtenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora