8. Questione di etica e di empatia

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Mi soffermo a osservare la mia mano dolcemente avvolta dalla benda color avorio per dieci secondi buoni, aggrovigliata dalle dita di Ludovico

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Mi soffermo a osservare la mia mano dolcemente avvolta dalla benda color avorio per dieci secondi buoni, aggrovigliata dalle dita di Ludovico. Un gesto che si sta trasformando in qualcosa di istintivo — la guardo cercando di comprendere, recepire come sia potuta accadere una cosa del genere; un briciolo di lieve incredulità mi si disegna sugli zigomi, andando a corrompere le forme degli occhi.

Le distese e ruvide dita di Ludovico attecchiscono sulla pelle del polso, trattenendolo fermo — quasi avesse il timore che sia colto da tremolii incontrollati — in maniera da averlo sotto le sue pupille accese di interesse, cercando una spiegazione a quella ferita coperta e tenuta volutamente lontana da sguardi indiscreti.

Egli rimane ammutolito, il contorno della bocca che non accenna a volersi muovere. Non proferisce alcuna considerazione: non commenta né sul fatto che abbia tirato un pugno frantumando uno specchio, né sul fatto che l'avrei fatto tecnicamente per via di un ragno.

Di tutto mi sarei aspettata, avrei atteso qualsiasi osservazione con fare cheto, avrei addirittura tollerato una risata, di quelle colme di beffa, quella celia che normalmente farebbe perdere il controllo delle proprie azioni.

Invece nulla. Solo silenzio, assenza di voce.

Il ragazzo nuovo continua a restare silente, le parole bloccate dietro quel muro impenetrabile quale le sue labbra puntate, rigido granito.

È talmente prodigato a rimirare quel tripudio di bende e bugie, arricciando l'incarnato della fronte e modellando le sopracciglia in un cipiglio truce, una parvenza che lascia intuire taciturna curiosità — quel tenebrore sfuggente, difficilmente decifrabile. Finché non allenta la presa, lasciando la mia mano sospesa all'aria, finché non mi fa intendere di essere pronto per dire qualcosa.

«Anche io mi sono fatto la stessa cosa. Quasi» proferisce lasciando trapelare una serietà che mi fa vacillare, gli occhi foschi che si rivolgono di nuovo sopra al mia effigie, sopraffacendomi per labili, laconici istanti.

E ne rimango turbata — i tendini che s'increspano sotto l'epidermide, i brividi che si divertono a rincorrersi lungo la linea della schiena —, perché a questa onestà innata, questo togliersi sin da subito la maschera di inganni e illusioni di un qualcuno che conosco a malapena, proprio non ne ho la confidenza.

«Accadde al quarto anno, credo... mio padre venne convocato per l'ennesima volta a scuola per via dei miei voti e della mia condotta pietosa. La sera, a casa, mi fece sedere sul divano e iniziò la più lunga ramanzina che abbia mai fatto. Mi sono fatto prendere dalla rabbia. Ho spaccato il telefono di casa, ricordo, strappando via anche il filo. Ma non mi sentivo soddisfatto e ho tirato un gancio destro contro la teca dell'argenteria di mia mamma. Ci ho infilato tutto il braccio e il risultato è stato un mare di sangue, e un lungo e profondo sfregio sull'avambraccio» racconta Ludovico con fare conciso, senza sprecarsi in dettagli inutili. Racconta la vicenda ormai intrecciata al passato e mai il tono che s'incrina, mai un segno di flebile risentimento o pentimento.

Quando Apollo s'invaghì di AtenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora