trenta.

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"Thou canst not think worse
of me than I do myself."
- Robert Burton

Taehyung POV

Il tempo non era mai trascorso così lentamente. Ciò che doveva essere semplicemente una serata odiosa in famiglia si era trasformata in un evento ancora più detestabile. Il mio unico pensiero era il ragazzo dai capelli corvini e lo sguardo nei suoi occhi mentre faceva di tutto pur di evitare di guardare i miei.

La cerimonia terminò verso le dieci di sera, erano passate cinque ore da quando lo avevo visto. Cinque ore erano sufficienti per fare tante cose.

«Jimin, andiamo.» Mi lamentai, una mano attorno al suo polso per trascinarlo via dalla massa di gente che chiacchierava. Eravamo tutti riuniti in una sala per mangiare e bere dei cocktail, Jimin aveva occhi solo per l'alcol mentre lo trascinavo.

Sbuffò, testardo come sempre. «Non voglio andare.»

«Non sai nemmeno dove stiamo andando.» Replicai.

«Non voglio lo stesso.» Mormorò, cominciando finalmente a camminare autonomamente accanto a me. Tirai fuori le chiavi e premetti il tasto prima di sentire il suono dell'allarme.

Il biondo aveva cominciato a rallentare, non aveva più alcuna energia dopo quella sera. «Dai, ti porto a casa.» Dopo aver trovato la macchina presi nuovamente il suo braccio, questa volta più delicatamente, e lo trascinai in quella direzione.

«Mi odia, Taehyung.» Disse Jimin. Non c'era alcun accenno di tristezza in quelle parole, nemmeno rabbia. Era semplicemente un'affermazione che uscì dalle sue labbra senza alcuna emozione. Poi aggiunse. «Ti odia.»

Sospirai e chiusi la portiera del lato del passeggero, non volevo dire nulla riguardo quella verità. «Assicurati di dormire stanotte, okay?»

Jimin non si rilassò, c'era costantemente uno sguardo preoccupato nei suoi occhi e, a conferma di ciò, le sue dita avevano continuato a giocare tra di loro per tutto il tragitto. Riuscii a malapena ad auguragli la buonanotte quando uscì dalla macchina e richiuse la portiera troppo in fretta.

Aspettai che entrasse nel suo appartamento, prima di sfrecciare verso casa di Jungkook il più veloce possibile senza farmi beccare dalla polizia.

Dieci minuti. Per quel tragitto di solito ne impiegavo diciassette. Corsi su per le scale fino a raggiungere il suo piano, non avevo tempo per aspettare l'ascensore.

Non mi sorpresi quando trovai la sua porta sbloccata, così, dopo aver bussato e non aver ricevuto alcuna risposta, la aprii con una spinta. Chiamarlo al cellulare non aveva senso, non mi avrebbe risposto perché sapeva si sarebbe trattato di me.

«Jungkook?» Chiamai il suo nome dentro quell'appartamento buio. Erano ormai le dieci inoltrate, la luce della luna filtrava dalle finestre aperte insieme all'aria fresca. Il suo appartamento era congelato e vuoto, molto simile a come mi sentivo io.

Accesi le luci della cucina e queste illuminarono l'intero piccolo appartamento con una tonalità soffusa e il mio stomaco si contorse. Quel posto sempre pulito e mantenuto bene adesso era sottosopra.

I suoi libri, quelli di cui gli importava più di quanto ammettesse verbalmente, erano sparsi per la stanza; alcuni aperti in certe pagine, mentre altri giacevano per terra rovinati. Gli unici rimasti sulle mensole sembravano guardare quella scena con disperazione, come i miei occhi mentre elaboravano tutta quella tristezza messa chiaramente in mostra non molto tempo prima.

Quel disastro era il riflesso della sua mente. Il freddo che si intrufolava da fuori attaccava qualsiasi cosa potesse portare felicità, sfogliava le pagine sul tappeto come fossero palle di fieno in un deserto.

WALLFLOWER  [TRADUZIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora