L'uomo delle nevi (II)

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A volte ci sono dei momenti talmente intensi che, anche quando li ripetiamo nella videocassetta dei ricordi, mantengono la stessa potenza dell'originale. Appena ripenso al bacio con Marco, uno strambo pizzicore mi tinge le guance di rosso, uno stormo di farfalle volteggia nello stomaco e il cuore batte così prepotentemente che devo quadruplicare gli allenamenti di ginnastica artistica per mimetizzare dietro la fatica quell'insolito tum-tum che tamburella nel petto.

Con Marco vige il silenzio assoluto. Sono certa che, essendo una mente maschile, non sia rimasto scottato da quel veloce scambio di salive. Per questo decido di non parlargliene e preferisco buttarmi nelle pagine del Tiranno che mi ha prestato Nicola.

Dopo sette giorni, passati a sorvolare l'indicibile, nel pieno delle vacanze di Pasqua, Marco fa però qualcosa di totalmente inaspettato, qualcosa che rimescola le carte in gioco: sparisce.

Un senso di déjà vu mi pungola le meningi, perché l'ultima volta in cui mi ha ignorata, ha passato la mattinata seguente a insultarmi in palestra. In quell'occasione la sua ira era giustificata dall'intromissione di Ivan nel binomio.

Ma adesso? Che cosa può essermi sfuggito?

Le vacanze passano e non mi cerca, né si degna di farmi uno squillo per informarmi che sì, i messaggi sono arrivati, ma da storico squattrinato si ritrova senza un centesimo nella sim.

Digito il numero di Marco e ascolto il cellulare suonare, in attesa che il pesce abbocchi all'amo.

«Nanà!»

Salto sulla sedia, quando mi accorgo che la voce non proviene dal cellulare, ma da dietro.

Marco è sulla porta e sorride:

«Chi stai chiamando?»

«Te, stupido!» grido. Sbatto il telefono in borsa. «Perché non hai risposto ai messaggi? Perché non ti sei fatto vivo per tutti questi giorni?»

Ci sono altri "perché" che vorrei chiedergli, ma la vergogna mi divora viva: cinque giorni non sono cinque mesi o anni.

«Anche tu mi sei mancata, Nanà!»

Corre ad abbracciarmi, gongolante per il mio interrogatorio.

«Ho fatto le prove per il saggio di chitarra» sussurra. Si stacca da me e mi trascina sul letto. Abbraccia l'orso di peluche e rimane immobile, con gli occhi chiusi, stanco come se non avesse dormito notti intere. «Sono ancora un disastro, ma ho deciso di migliorare. Voglio diventare bravo per davvero.»

A Marco piace suonare la chitarra, l'ho sempre saputo. Più che suonare gli piace pizzicare quelle quattro corde in croce e riprodurre la melodia di una canzone che conosciamo, permettermi di cantare a squarciagola mentre strimpella.

«Per me sei già bravo» gli dico. «Ma comunque perché tutta questa serietà proprio adesso? L'ultima volta non ti sei nemmeno presentato al saggio!»

Marco spalanca le palpebre. Gli occhi brillano di eccitazione, voglia di arrivare, di mettersi alla prova.

«Andiamo allo Yeti stasera» mi dice. «C'è una persona che ti devo assolutamente presentare.»


*


Ogni mercoledì sera, dalle dieci a mezzanotte inoltrata, allo Yeti fanno musica dal vivo. Non ho mai messo piede nel locale, un vecchio bar che imita i peggiori pub inglesi, ma la bacheca in sala caffetteria, al liceo, è intasata dai volantini di aspiranti band in cerca di pubblico, motivo per cui nessuno può ignorare l'esistenza di quel postaccio. In generale non sopporto i pregiudizi, ma il fatto che Valentina ne abbia parlato come della tana del demonio mi convince a stare sulla difensiva.

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