Double Decker (III)

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Nel corso di una decina di giorni, scopro un altro punto in comune tra i fratelli Ulivieri: le loro promesse non sono mai un corteo di parole vuote e infatti Ivan è attento a presentarsi tutti i pomeriggi allo Yeti, proprio quando arrivo io.

Dopo un paio di incontri, gli ho attribuito il titolo di miglior conversatore. Ci sono pochi argomenti a lasciarlo spiazzato e ogni sua teoria dà modo di riflettere, ma allo stesso tempo mi riempie di invidia: non dovrebbe esistere una persona tanto brillante.

Al settimo incontro, realizzo che tra di noi manca ogni contatto fisico, forse una semplice paranoia, eppure questo pensiero mi getta addosso una secchiata di smarrimento, una sensazione di inadeguatezza che si cuce all'epidermide e non si scolla nemmeno quando uno spiacevole imprevisto fa ridere Ivan per un'ora, mentre io...

Beh, io rischio di eseguire una metamorfosi completa da figura umana a fontana di lacrime!

«Nina, è solo una gomma da masticare!»

Sebbene la sua voce sia una carezza calda, non mi convince e così continuo a frugare in borsa, in ogni minuscola tasca della quale ignoravo l'esistenza.

«Non è così semplice» piagnucolo, avvolta da una patina di sudore freddo. «Era una specie di promessa. Avevo giurato di tenere quella Brooklyn

Un'onda di stupore mi travolge, quando mi accorgo che non l'ho pronunciato. Il suo nome, quello di Marco, quello che per abitudine tintinna nell'aria appena gli penso, è rimasto intrappolato in una morsa di silenzio.

Forse, perché quelle cinque lettere innocenti avrebbero sgualcito ancora di più il sottile equilibrio su cui io e Ivan ci stiamo muovendo.

«Nina, perché non compri un altro pacchetto al tabacchino?»

Ed eccolo il contatto, la sua mano che si butta sulla mia per impedirle di tremare, una presa salda che cancella quell'attimo di panico.

«Perché sei così maledettamente intelligente?» gli domando con una finta vocina invidiosa.

Al che lui schiocca la lingua e mi risponde con il solito crescerai, un verbo che odio, perché sottolinea come sia piccola, come non possa andare bene. Forse. Perché in fin dei conti, anche dopo la scenata della Brooklyn, continua a venire allo Yeti, cinque di pomeriggio, stesso tavolo all'angolo.

Nel giro di due settimane, lo Yeti si trasforma nel paradiso terrestre. Non vedo l'ora che le campane di paese oscillino nei miei rintocchi preferiti: cinque, quando ho una scusa per uscire di casa e incontrare Ivan; dieci, quando Marco ha una buona connessione internet e ci vediamo in Messenger.

Le nostre conversazioni online sono sempre più brevi: problemi di linea, l'invadenza della famiglia che lo ospita, la bolletta di casa che impenna alle stelle.

«Ora sono a Londra» mi racconta Marco una sera. «Starò qui un paio di giorni con la scuola che frequento. L'inglese tra l'altro fa schifo. Perché non posso imparare lo spagnolo? Almeno fa ridere!»

Inizia a raccontarmi dei suoi viaggi in metropolitana, fermata dopo fermata, di un mondo che sembra più grande dell'universo e io vorrei saperne sempre di più, ma poi la linea salta, lo schermo diventa un guazzabuglio di formichine, punti neri che si inseguono e lampeggiano sullo sfondo bianco.

Bianco, come il sentimento di vuoto che mi avvolge, come il mio cervello che si arma di pazienza e sa di dovere aspettare.

Domani, giovine, mi ribecca il grillo. Gli parlerai di nuovo domani.

Binomio - 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora