L'uomo delle nevi (III)

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Le serate allo Yeti, il mercoledì e il sabato, diventano una costante.

Ogni volta che torno a casa, papà storce il naso quando sente l'odore di nicotina sui capelli, ma sa che non fumo e quindi, se si preoccupa, lo fa in silenzio, a differenza di mia madre che inserisce il disco della ramanzina, modalità repeat.

Non fumare, non frequentare certi locali e soprattutto certa gente!

Dietro il generico gente di mamma Rosa, si nasconde niente meno che Yuri, colpevole di avere deviato la mente di Marco e, di conseguenza, la mia.

Già, perché assieme allo Yeti anche lui, il re dell'anarchia e dello sbando, celebrato come il Grande, diventa una costante delle nostre vite.

Con il senno di poi, riconosco che sotto quella patina di egocentrismo e strafottenza non è male. Ha uno strano sarcasmo, pungente e colmo di riferimenti letterari che Marco non sa cogliere. Se a questo si aggiunge che ci passa le vecchie prove, si fa presto a capire che per la sottoscritta la quinta ginnasio scorra più liscia di un Martini senza oliva.

Seduta sulla panca nella cantina del nonno di Marco, una stanza grezza con le pareti ancora da intonacare, confronto le risposte di chimica con quelle di Yuri. Nonostante sia solo una materia opzionale per gli studenti del secondo anno, il professore è una bestia di Satana, ma per fortuna Yuri ha tutti i vecchi test e si sa, agli insegnanti non piace innovare!

A fine correzione, posso dirmi soddisfatta del mio lavoro: nemmeno un errore. Quello di Marco invece...

Lo guardo armarsi di attacca-tutto e nastro adesivo, incollare la versione di greco nel dizionario e subito un sospiro esasperato mi esce dalle narici.

«Non dovevamo impararla a memoria?» gli chiedo, in un'evidente domanda retorica.

Lui continua a destreggiarsi con il nastro adesivo e scoppietta la lingua in una risata forzata.

«Che perdita di tempo!»

Oggi ha qualcosa che non va, emana un umore cupo e fatico a comprendere perché il volto sia abbuiato e nessun sorriso da Stregatto gli mangi le guance.

«Devo ancora capire a cosa serva questo maledetto greco» bofonchia. Strofina i polpastrelli per liberarsi della colla. Due placchette, solidificate e marchiate delle sue impronte digitali, finiscono sul tavolo. «Guarda qui!»

Avrà litigato con suo padre per un brutto voto. Ma perché non mi dice niente? O forse c'è dell'altro?

Affogo quell'altro in un mare nero: non posso pensare che una nuova minaccia incomba all'orizzonte, non quando abbiamo passato l'intera quinta ginnasio a camminare insieme, sul filo dell'intesa.

Va tutto bene, Nina. Calma.

Scivolo sulla panca di legno, più vicina a lui, e decido di dargli corda, finché la vedo, la pagina con la versione. Imita i caratteri del dizionario, alcune parti in grassetto, altre in corsivo; si mimetizza alla perfezione tra i fogli sottili e semitrasparenti.

«Marco?» Cerco nelle corde vocali una nota scherzosa per alleggerire la tensione. «Sei il solito zuccone! Si può sapere quanto tempo hai impiegato per fare questa cosa?»

«Quattro ore» risponde lui.

Evita di guardarmi, le iridi inchiodate sui ricami della pagina. E io non posso che maledirlo, perché avrebbe fatto prima a imparare il testo a memoria e a studiare chimica, visto che la verifica è alle porte e il suo quiz con le nomenclature è un disastro.

«Non hai azzeccato mezza soluzione» lo rimprovero.

Vorrei che la mia voce suonasse come una finta lamentela, trovare in me la leggerezza necessaria per spianare qualsiasi pensiero lo stia tormentando, ma non ci riesco.

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