Bandiera rossa (III)

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Dopo quell'incontro al Bandiera Rossa non ci sono stati altri colpi bassi da parte di Yuri, niente riunioni improvvise in luoghi improbabili, fingendo che la colpa sia del caso e non della sua mente malvagia. A scuola io e Marco ci limitiamo ad ascoltare le lezioni, sperando che Lorenzi si alzi con la luna giusta e ci sposti agli antipodi dell'aula.

Quando arriva il compleanno di Marco, il diciannove ottobre, il grillo entra in modalità vendicativa e sibila piani diabolici, mi istiga a comprare una scorta illimitata di fiammiferi e a bruciargli casa.

Una remota particina di me si illudeva che quel microcefalo di cognome Zuccato avrebbe colto l'occasione per riallacciare i rapporti. Ma lui è stato talmente svelto a rispondermi a suon di picche che sono ancora dolorante: alla festa ha invitato tutti gli studenti della prima classico, tutti tranne me.

Ha stampato un biglietto perfino per Stefano e Nicola. E tu vorresti rifiutare una tanica di benzina e un carico di dinamite?

Ho amato Nicola quando ha preso il cartoncino dell'invito e glielo ha strappato sulla punta del naso. L'ho amato un po' meno quando è venuto da me per la solita paternale:

«Devi chiarire con lui, Nina. Non dare a quello zuccone il merito di farti stare male».

Getto il consiglio nel cestino, assieme ai coriandoli dell'invito strappato, e mi butto a capofitto in novembre, dicembre, persino nelle vacanze di Natale; duplico le uscite con Stefano, Pietro e l'Astratta; imparo ad apprezzare con onestà Chiara e Marina; continuo a ritenere Valentina la colonna portante della mia vita.

Ma a gennaio, dopo il volo della Befana su una scopa da Quidditch, un nuovo dramma scava una diversa buca della depressione sotto i miei passi ingenui. E precipito, colpita da una somma di guai, perché i calci di Valentina questa volta non riusciranno a rimettermi in piedi.

Ho iniziato a fare ginnastica artistica quando ero piccina e, per quanto spinga indietro la memoria, non ricordo giorno in cui non abbia saltato e volteggiato nella palestra dietro casa. Non ho mai sognato di diventare una professionista. La maestra dice che la ginnastica non è uno sport, ma una disciplina, e io non sono nata per le rinunce.

Però mi piaceva la sensazione di volare, di spiccare il salto, toccare il cielo e gridare all'universo intero: "Guardatemi, anche se solo per un istante, ho stretto il mondo in un pugno".

Quando cado durante un flic flac, sbatto il ginocchio sulla trave e mi spezzo in due la rotula, non penso al dolore che mi toglie i sensi, alle grida delle compagne o ai pianti che sfumano nel silenzio. Mi vedo su una sedia a rotelle per il resto dei miei giorni e grido che rivoglio indietro il tempo, so eseguire la sequenza alla perfezione, l'ho sempre fatto, solo che oggi non ero concentrata.

Mi risveglio in un letto d'ospedale, mia madre che mi accarezza i capelli, mio padre che parla con un'infermiera.

«Mamma, che è successo?»

Ho la bocca impastata, la voce rimbomba nelle orecchie.

«Tesoro, non è niente!» Ha gli occhi lucidi. «Sei solo caduta. Ora stai bene.»

Annuisco e schiaccio la guancia contro il cuscino, puzza di disinfettante e plastica.

«Mamma!»

Indico la sedia a rotelle, attaccata al comodino dell'ospedale, vicina al letto come un gentiluomo d'età vittoriana, pronto a prendermi a braccetto e ad accompagnarmi in una lunga passeggiata.

La voce di mia madre taglia di netto il filo dei pensieri:

«È per portarti fuori da qui. Sei ancora intontita dall'anestesia. Il gesso però lo dovrai tenere per più di un mese».

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