Più Yuriti più amore (II)

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Il 3 marzo la temperatura subisce una rapida impennata di grado, una brezza calda, odore di fiori e primavera, accartoccia gli ultimi residui di neve e gelo depositati negli angoli delle strade. Lo strano fenomeno atmosferico convince Marco a uscire dallo stato di letargo.

Quando i primi cardi bucano la coltre dei prati di vallata, abbandona la tana dove ha svernato e si accorge del nostro allontanamento.

Si fionda in classe con il fiatone, minacciando di far cadere per terra Nicola e Celeste, e si catapulta da me, un tornado di disordine che porta al rovesciamento del bicchiere sul libro di greco. Il caffè macchia la pagina delle versioni, ma non ho il tempo di lamentarmi che un urlo mi spacca i timpani:

«Perché stai passando tutto questo tempo con quel cane

Quando indica il posto di Biagio ancora vuoto, sento la lingua pizzicare dal desiderio di confessare possibili risposte: Valentina; finalmente te ne sei accorto; ma vaffanculo, rifiutarmi, evitarmi e adesso additarmi con unica responsabile.

«Nanà, io sono stato preso con il basket, con le insufficienze, con mio padre, con la chitarra, con le dritte di Yuri. Impegni su impegni per più di due mesi! E ora che il campionato è finito e mio padre è via per un convegno, cosa succede?»

Alzo le spalle in un non lo so.

«Succede che ti trovo culo e camicia con un cane! D'ora in poi vi chiamerò CC, culo e camicia!»

Dovrei essere arrabbiata, adirata come una iena. Dovrei scattare in piedi e far mangiare a Marco il bicchiere di plastica che conteneva il caffè.

Ho ancora sullo stomaco il macigno del rifiuto, granito calcificato che gli acidi non riescono a sgretolare. Ho accettato che fosse un abbaglio, di avere guardato troppo a lungo il sole ed essermi bruciata le retine per un film romantico da condannare al rogo. Ma questo sfogo di rabbia davanti al resto della classe, l'accusa di spassarmela con Biagio, è un colpo di sciabola che mi mozza la testa.

«Non vedo il problema» mento.

Riconosco i sintomi delle sue pupille dilatate, del dito che trema, puntato a mezz'aria sul banco di Biagio. So dare una diagnosi precisa al morbo che gli scombussola il petto, alla carnagione incartapecorita. Si chiama gelosia, la stessa che ho provato per colpa di Celeste.

«Il problema c'è» dice Marco. Tira fuori un fazzoletto e inizia a pulire il banco. Tampona la pagina del libro. «Ma per fortuna ho la soluzione.»

Rinuncia a salvare il salvabile, quando si accorge che dell'orazione di Demostene si intravedono solo poche lettere, e srotola un foglio A3 sul banco, attento a evitare alcune gocce di caffè.

«Perché hai disegnato il giardino di casa mia?» gli chiedo.

Uno schizzo a matita riempie il foglio. Ci sono le tre dracene che costeggiano il vialetto di ingresso, le betulle dietro la casa e il nespolo al quale l'estate attacchiamo l'amaca. E poi, in quel mare del verde, striscioni di carta; nel cielo disegnato palloncini; panche di legno lungo il porticato, barilotti di birra disseminati a macchia sui gradini di pietra.

«Qualcuno fa diciotto anni tra un po'!»

Gira il foglio e sul retro ci sono delle parole in calligrafia disordinata. Riconosco il nome di Biagio, con in parte un enorme punto di domanda. In un riquadro evidenziato di giallo c'è il menù, in un altro i promemoria di oggetti che non si possono scordare.

«Dobbiamo solo metterci al lavoro, Nanà, e sarà la miglior festa mai vista. Yuri porta l'amplificatore, Stefano si occupa della birra e Biagio...»

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