Double Decker (I)

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Quando Massimo mi chiede di accompagnare Marco all'aeroporto di Verona, giusto un'ora di macchina, esito. L'idea di vederlo salire su un aereo e prendere il volo mi distrugge, ma la possibilità di passare altri sessanta minuti con lui, in quell'auto, mi sembra l'ultima occasione alla quale aggrapparmi.

Sul sedile posteriore, fingo di essere sul divano, davanti a un film.

Fingo che la partenza sia un grande scherzo, un gioco di ruolo.

Fingo che una volta arrivati all'aeroporto ce ne torneremo tutti a Viacampo: Massimo, Rita, Marco e io.

Invece, appena arriviamo a destinazione, Marco si mette in fila per il check-in. Presto la valigia nuova di zecca passerà sul rullo accanto al metaldetector, sancirà l'istante preciso in cui non potrò più nascondermi in una coperta di bugie e illusioni.

«Mi raccomando, usa la testa» gli dice Rita, avvolgendolo in un abbraccio. Lo stritola come una piovra, si cala alla perfezione nella parte del genitore apprensivo e con le sue premure da mamma mi travolge in un'onda ghiacciata: Marco parte, parte sul serio.

«Io invece ti dico di approfittarne per migliorare l'inglese» recita Massimo in un discorso che deve avergli già propinato un centinaio di volte. «Se vuoi entrare a medicina, devi uscire con una media alta dal liceo.»

Poi mi cerca, mi trova piccola e in disparte, determinata a sparire, pur di non vivere questo addio, pur di non sentirmi bruciare da un dolore imbarazzante e illogico. È solo qualche mese, Nina, soltanto una somma di pochi giorni.

Eppure, quando mi rifletto nello sguardo di Marco, sola in una bolla tutta nostra, mi sembra di affogare nelle acque delle sue iridi troppo cristalline. Dopo che Massimo e Rita si sono allontanati, mi concentro sulla maglietta turchese che indossa, rifiuto l'idea di vederlo partire. E intanto la risata malefica di Giacomo si insinua nei pensieri: "Preparati un discorso d'addio, genio. Qualcosa di straziante per coronare l'insensatezza del vostro binomio".

Al di là del suo tentativo di prendermi in giro, riconosco la validità del consiglio. Almeno avrei saputo che dire, almeno avrei saputo come sciogliere quella paralisi che mi blocca le labbra e mi impedisce di parlare.

«Non devi essere triste, Nanà» mi supplica Marco, mentre marcia un passo verso la mia terra di nessuno. «Sarò già triste io, lo sarò per entrambi. Tu qui hai Biagio e Valentina. Puoi andare alla Casa Rossa, ora che non hai più paura.»

La sua voce è calda, sa di carezze e affetto, di frasi fatte che dovrebbero alleggerire quel peso che sento sul cuore. Perché sappiamo entrambi che non sarò felice: Biagio esce spesso con alcune ragazze più piccole, Valentina partirà per il mare con Giacomo e io...

Io sarò solo un pezzo inutile, incapace di incastrarsi con il resto di Viacampo, perché non ho il mio posto nel mondo, se Marco non è con me.

«C'è sempre Yuri» mi dice lui. Ondeggia la mano per sfiorare la mia, ma io la ritraggo, gli impedisco di varcare le mie difese. «Andrai allo Yeti, sentirete un po' di musica. Non è che se non ci sono io chiudono tutti i locali, sai?»

Somma troppe menzogne nell'arco di poche parole e alla fine è lui la vittima di questo monologo forzato. Un singhiozzo gli sfugge dalle labbra, si mescola al mare in tempesta del suo sguardo, quando lo fisso.

Già, ora lo guardo: le iridi sono talmente chiare da disegnare delle onde e infrangersi contro le ciglia, troppo testarde per scorrere sulle guance.

«Non sarà lo stesso» gli dico. «Tu conoscerai nuove persone, non avrai nemmeno il tempo di pensarmi.»

E ora è mia la voce che si incrina, mentre il suo pollice cerca il mento per costringermi a non deviare lo sguardo, a non rifugiarmi nell'immagine di due vecchiette che ci guardano ed equivocano la nostra situazione.

No, non è amore.

No, non è un addio tra due fidanzati.

«Ci sentiremo ogni sera alle dieci. In Messenger. D'accordo?» gli chiedo. Sarà come donargli ogni giorno un pezzo della mia voce, un pezzo di me.

«Dovessi andare in capo al mondo, troverò una connessione» giura lui. E alla fine ci riesce, intento com'è a scoprirmi il viso da alcune ciocche ribelli, a rubarmi la prima lacrima del giorno, il primo segno di debolezza.

Lui che deve essere sempre così plateale, che avrebbe potuto cavarsela con un rapido ci sentiamo, mi ha obbligata ancora una volta a esporre i miei sentimenti, a metterli in piazza, nel cinema di un aeroporto, come in un vecchio film in bianco e nero.

«Ho una cosa per te» gli dico.

Determinata a ricompormi, tolgo le sue mani dal viso e recupero dalla tracolla il diario. È un vecchio formato A5, con la copertina in cuoio e le rilegature in corda, simile alle agende di viaggio degli avventurieri.

«Ogni cosa bella che ti capiterà» sussurro, mentre lo costringo a stringere il quaderno. «Ogni cosa brutta, ogni cosa che vorresti dirmi, la scriverai lì. E quando tornerai, me lo restituirai e sarà come se avessi vissuto ogni giorno con te.»

Marco accarezza il cuoio, quasi potesse respirarlo con le dita.

«Un vero rapporto di viaggio, Nanà! Non ti arrabbierai, se sbaglio i verbi, vero?»

«No, no giuro» rido anch'io.

Sento le lacrime rigarmi le guance, quando lo vedo aprire il volume, osservare la foto che ho incollato nella prima pagina, noi due in riva al lago, ai piedi del nostro salice, accanto a Pink e Floyd.

E poi, nella seconda pagina, una scritta che ho scolpito nel cuore:

«Hermann Hesse» legge con la voce che trema. «Narciso e Boccadoro. Siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altra, ma di conoscerci l'un l'altra e d'imparar a vedere e a rispettare nell'altro ciò che egli è: il nostro opposto e il nostro completamento.»

Aggiunge un silenzio, una pausa forte dopo il punto, il bisogno di capire a fondo quelle parole. E sì, sono convinta che non lo sappia ancora fare, leggerle come le ho intese io, eppure saperle in viaggio con lui mi basta.

«Anche io ho un regalo per te» mi dice.

Il cuore si ferma, bloccato da uno stupore che cresce, quando Marco estrae dal pugno il pacchetto di Brooklyn, lo stesso con cui in spiaggia giocavamo a imitare Lilly e il Vagabondo.

«Ce ne sono rimase solo due» rivela. E senza aspettare un segnale me ne affida una, la chiude nel mio pugno. «Questa la tieni per quando torno. L'altra invece.»

Polpastrelli goffi scartano l'ultima chewing-gum, accartocciano l'involucro argenteo nella tasca dei jeans, mentre quel rettangolo bislungo si posa tra le labbra, imita di nuovo la lingua di un serpente, in un invito mi chiede di tornare ad assaggiare il suo respiro.

Mastico piano, avanzo lenta su quel filo di gomma che ci lega, finché non incontro la bocca di Marco e so cosa dovrei fare: rompere la chewing-gum come quel giorno in spiaggia. Però resto immobile, paralizzata dallo stupore, perché nemmeno lui si stacca, anzi, incastra le sue labbra nelle mie, le schiude, improvvisa un bacio gentile che cancella il ricordo della Brooklyn.

E anch'io, come una sonnambula, vittima di un riflesso istintivo, cerco la sua bocca, attenta a non far cadere la chewing-gum, quel ponte che collega i nostri visi, due lembi di terra destinati a separarsi per colpa di un terremoto: l'Irlanda.

Quel nome di Stato è una sveglia, un allarme che desta la coscienza. E allora, prima che quel gioco di labbra possa diventare più di un bacio di prova, più di un bacio di saluto, più di un bacio d'affetto, mi trasformo nella scossa che spezza il ponte e mi stacco da lui, solo un soffio, la sua mano calda che convince le nostre fronti a sfiorarsi:

«Tieni l'altra per quando torno» sussurra con il fiato basso. «È una promessa.»

Binomio - 1Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora