Ferite alla Nutella (I)

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Estate 2007


Quando andavo alle elementari, passavo i pomeriggi dopo scuola a casa di mio nonno. Gli facevo compagnia mentre lavorava la campagna, innaffiava le piante, recideva i rami e li innestava su nuove piante. Se il sole non era troppo caldo e il raccolto gli lasciava un attimo di respiro, si sedeva su una vecchia cassetta di plastica, si stappava una birra e mi raccontava le sue avventure di gioventù.

Ricordo che una volta, quando avevo nove anni, mi parlò del coraggio che bisogna avere per rialzarsi dopo uno sbaglio.

«Per prima cosa devi aprire l'armadio, Nina, e assicurati che nessuno scheletro si nasconda tra i vestiti appesi e la biancheria appallottolata nei ripiani.»

Allo stesso modo, quando si ara la terra, prima di seminare nuove piante, bisogna togliere dalle zolle incolte i sassi più grandi, nascosti nel terriccio.

A distanza di anni, ho finalmente capito il senso di quelle parole. Dopo il caos che ha sconvolto la mia vita, ho gridato al mondo intero di voler partire da zero, ma nel mio armadio c'è ancora un grandissimo scheletro che batte per uscire allo scoperto. E quello scheletro ha un nome e un cognome: Stefano Nisi.

Da qualsiasi angolazione provi a giudicare la faccenda, non faccio che schiantarmi contro la mia maleducazione, la mia mancanza di rispetto, il mio menefreghismo, la mia inadeguatezza. Penso al muro che ho innalzato attorno a me, dopo quel pomeriggio sul balcone di casa sua. È facile chiedere scusa, quando l'errore è stato compiuto. È solo una parola che non può cancellare il male fatto e non sono sicura che accompagnare alla richiesta di perdono una confezione di gelato possa servire a strattonare lo scheletro fuori dall'armadio.

Quando ho detto a Marco che sarei andata a parlare con Stefano, lui ha alzato il volume della televisione.

«Che cosa gli dirai?» mi ha chiesto.

«Che mi dispiace.»

Marco è rimasto in silenzio, a valutare il peso delle mie parole.

«Vuoi che venga con te?»

«Grazie, ma è una cosa che devo fare io.»

Quando arrivo alla porta di casa Nisi, mi pento però di non averlo portato con me. Ho i crampi allo stomaco, l'agitazione che scalpita nel petto e rischia di squagliarmi come il gelato nella confezione. I passi di Stefano, oltre la porta, sono sempre più vicini.

«Arrivo! Arrivo!»

Riconosco la sua voce e, quando la porta si socchiude, il suo volto. La scocciatura di essere stato disturbato lascia il posto a un misto di smarrimento, confusione e panico.

«E dopo venti giorni di assenza, ecco a voi Nina Adami in tutta la sua gloria!» esordisco con una risatina che per la tensione esce troppo stridula.

Stefano è veloce ad adeguarsi al tono scherzoso.

«Guarda chi torna nella tana del lupo» sorride.

«Credevo di essere io il lupo!» protesto con finta voce indignata.

Stefano non cancella il sorriso con il quale mi ha salutata e apre la porta, prima socchiusa, spostandosi di lato per lasciarmi entrare. Marcio ad ampie falcate in un salotto che conosco troppo bene e mi autoinvito sul divano, il posto dove mi lascio sempre cadere durante i tornei di dama.

«Tu sei il diavolo della tentazione» mi corregge lui. «Non il lupo.»

Si butta sulla poltrona di fronte a me. Ed ecco che senza volerlo, il sentiero intrapreso dal discorso si snoda nei meandri più scuri dei nostri peccati.

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