Dodici renne per Kant (III)

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È la vigilia di Pasqua, ma all'ospedale i medici non vanno in ferie. I pazienti non smettono di morire, per festeggiare l'arrivo del coniglio e delle uova al cioccolato, la resurrezione di Cristo, direbbero i credenti, ma io mi rifiuto di pronunciare queste parole. Sto tenendo il muso al grande Signore dei Cieli: abbiamo ancora un conto in sospeso, una richiesta che pende nella sua casella di posta, attende di essere letta e accolta.

Di natura non mi reputo una persona paziente – dalla vita voglio sempre tutto e subito – eppure, se la situazione si risolverà al meglio, sono disposta a concedere a Dio un mese di tempo. Nel frattempo, prego che Massimo dia il permesso di trasferire Biagio nell'ospedale di Verona, una decisione che manterrebbe viva la speranza.

Visto che i rapporti con Marco sono tesi, suo padre di telefonate, pretendo un costante aggiornamento sulla situazione. Da bravo neurochirurgo, Massimo mi spiega che questo sabato faranno gli ultimi controlli, una procedura complessa che a Stefano riassumo così:

«Attaccare delle ventose sulla sua testa, guardare alcune linee sul monitor, studiare i movimenti del cervello».

Se il verdetto sarà meno negativo delle loro previsioni – è da ipocriti dire "positivo" – allora lo porteranno a Verona per ulteriori cure.

"Più sviluppate saranno le apparecchiature, maggiori diventeranno le possibilità di successo" mi ha spiegato Massimo, ieri sera, esaurito dall'ennesima telefonata. "Ti garantisco che tutti i medici stanno facendo del loro meglio."

Non è andato oltre la parola successo e ha lasciato che restassi incantata a perdermi nei pensieri, una bambola rotta con un disco di ripetizione installato in testa: quale accezione dovrei dare alla parola successo, se applicata a Biagio? Per me successo è riaverlo indietro, così come l'ho lasciato, ma nutro il sospetto che diverso sia il senso in gergo medico.

Smetto di pensarci, solo quando alle nove di mattina il telefono suona e sul display compare il nome di Marco.

Il cervello trilla infiniti segnali d'allarme. Dal giorno in cui l'ho adocchiato al Torcia in compagnia di Celeste, non abbiamo più avuto contatti. Il disco dei System of a Down sonnecchia ancora in borsa, nell'attesa che un segnale divino ci riunisca. La tragedia di Biagio è precipitata sulle nostre teste come una slavina di neve, ci ha sbalzati in direzioni diverse, agli antipodi del mondo, così lontani che non so se riusciremo a superare la bufera e a ritrovarci.

«Pronto?» gracchio a respiro trattenuto.

"Vieni con me da Biagio?"

La frase mi fa cedere le ginocchia, la freccia di un ricordo doloroso: il giorno della farmacia, Stefano che pronuncia queste identiche parole.

«Perché?»

"Papà ha detto che oggi lo trasferiscono a Verona e, anche se non possiamo vederlo, sarebbe carino da parte nostra salutare la famiglia."

Lo trasferiscono, un ottimo segnale, a meno che Massimo non mi abbia mentito. Un sorriso di sollievo fiorisce sulle labbra, lo uccido subito. La rabbia bolle nello stomaco, appena ricordo che Marco non si è più fatto vedere all'ospedale, non ha contattato Anna, non ha cercato me. Una gettata di lava risale in testa, mette al massimo il volume della voce, ma Marco mi precede:

"Ci andiamo insieme?"

Lo chiede con un'indifferenza da vomito, come se per giorni su giorni non mi avesse ignorata.

Hai sbagliato numero, Marco, hai sbagliato ragazza. Non mi chiamo Celeste Innocenti. Non ho lunghi capelli color notte che mi arrivano al sedere, né grandi occhioni di ghiaccio e una quarta di reggiseno. Dall'altro lato della cornetta, c'è Nina Adami, che in questo momento vorrebbe prenderti a pugni e poi abbracciarti, perché non ti sopporto, perché mi manchi.

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