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Quando era piccola, Edna passava la maggior parte del suo tempo per strada. Non perché i suoi genitori la volessero tenere lontana o perché avessero chissà quali difficoltà economiche, era lei che voleva rimanere fuori di casa il più possibile.

Aveva provato a giocare con le bambole, ma dopo poco si annoiava e lasciava le altre bambine da sole per andare da qualche altra parte. Non si divertiva neanche con i rocchetti di legno, perché pensava che fossero troppo banali come giocattoli. E poi i maschietti non facevano altro che guardarla storto. No, a lei piacevano gli insetti.

Non giocare con gli insetti, proprio guardarli. Guardarli zampettare pian piano con la testa appoggiata per terra e gli occhioni spalancati.

E c'era un certo tipo di insetti che lei ammirava molto: le formiche. Sostanzialmente non facevano nulla di che, andavano avanti e indietro in carovana per trasportare le briciole al formicaio, ma la cosa che affascinava Edna era un'altra.

Le osservava durante tutto il tragitto, senza staccare mai gli occhi, anche quando la processione era lunga quanto tutta la strada. Solo poche arrivavano a destinazione, la maggior parte rallentava prima, si perdeva, o peggio ancora veniva calpestata da qualche passante. E nonostante questo non si fermavano. Chi rimaneva andava avanti anche col pericolo di fare la stessa fine, e lo faceva lentamente, senza affrettare il passo, con una calma che l'aveva sempre lasciata a bocca aperta.

In quel momento, insieme alla valanga di pensieri che le avevano offuscato la vista, c'era anche quello. Diciamo pure che era sotterrato sotto gli altri mille, ma c'era anche quello. Le formiche. La quiete delle formiche.

E non era solo questo che la faceva titubare. Lei, a differenza di tutti, da sempre, non aveva mai avuto il coraggio di uccidere un solo essere vivente. Neanche una formica.

E quella volta, invece, aveva il folle desiderio di uccidere addirittura un essere umano. Più aspettava il momento giusto per colpire, più iniziava a fare qualcosa di altrettanto pericoloso: rifletteva.

Si rifletteva.

In quegli occhi.

Maledetti, non si chiudevano, non smettevano di fissarla. L'espressione non era cambiata affatto, eppure in lui ora c'era qualcosa di strano. Non se lo sapeva spiegare, ma più che un maledetto, terribile, spietato e feroce spartano, sembrava un bambino spaventato. O forse era solo una sua impressione. Sarebbe stato cento volte meglio se non l'avesse mai guardato, quegli occhi se li sentiva addosso anche quando girava la testa.

Iniziava a farsi strada dentro di lei la convinzione che, forse, non meritava di essere ucciso. Si era solo trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato, con la lancia sbagliata conficcata nel fianco. E che ne sarebbe stato di lei? Del suo piano? Di tutto il suo piano che aveva architettato soltanto per rendere fiero suo padre?

Il punto era: poteva essere giusto stroncare una vita solo per un suo capriccio egoista? L'ennesimo? Guardava quel ragazzo e la risposta la vedeva disegnata sulle sue labbra, nei suoi occhi, fra i suoi capelli neri. Non era giusto. Non era sua, la colpa. Stava sbagliando.

Come se tutte le forze l'avessero abbandonata, lasciò scivolare giù le braccia e cominciò ad asciugarsi il sudore dal viso. Non sapeva cosa le fosse accaduto, perché non si era mai sentita così irrequieta in vita sua, ma non era durato più di una manciata di secondi.

Mentre si riprendeva rimaneva lì, ferma, con la schiena curva e il viso stremato, a guardarlo. Da qualche parte nei suoi occhi vide una punta di sollievo.

Si avvicinò, pur notando il senso di repulsione che cresceva sul volto del ragazzo ogni volta che faceva un passo avanti. Prese con forza il manico della lancia, la staccò dal fianco poco per volta e la gettò per terra.

GHIGHNOMAIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora