12.

18 4 11
                                    

Quando sentì le urla, per qualche strano motivo Amos pensò che si trattasse di una delle solite crisi di pianto che colpivano Danae a causa del parto imminente. Ma appena aprì la porta della sua stanza si rese conto che il problema era proprio il parto imminente.

Danae aveva il pancione fra le mani, e con il viso terrorizzato guardava ai suoi piedi una piccola pozza di colore grigiastro che colava dalle gambe.

Con l'aiuto di un altro schiavo, Amos la sollevò e la portò velocemente nella stanza libera più vicina: quella di Tecla. La padrona non c'era, per fortuna, e siccome il letto era schiacciato verso il muro e troppo piccolo per ospitare una partoriente, Amos chiese che fosse stesa su una stuoia messa sul pavimento. Danae, tra le grida, protestò di non volerlo, che tutte le donne che conosceva partorivano su un letto o su una sedia. Amos la zittì dicendo che sarebbe stato più scomodo, e che comunque non c'era tempo. Cacciò via l'altro schiavo e la incitò ad aprire le gambe.

Anche qui Danae si rifiutò piagnucolando, perché non poteva farlo davanti ad un uomo. Amos le ricordò che era uno schiavo, e che aveva bisogno di capire com'era la situazione prima di chiamare le levatrici.

Danae, quindi, divaricò le gambe, non perché si fidasse, quanto perché il panico stava divorando lentamente lei e ogni traccia del suo pudore. Dopo un'occhiata attenta e rapida, grazie alla quale Danae sperò di capire qualcosa -anche se rimase più spaesata di prima- Amos uscì fuori di corsa.

Danae, sentendosi abbandonata, trascurata, iniziò ad urlare più forte e a sbattere i pugni sul pavimento. Un dolore pungente la costrinse a divaricare le gambe ancora, sempre di più.

Sentiva quella maledetta cosa muoversi, rivoltarsi, le graffiava la pelle dall'interno e la opprimeva, la faceva sentire pesante. Non voleva buttarla fuori, voleva semplicemente che la smettesse di farle male.

Il vestito non era umido, era proprio fradicio. Ringraziò almeno di non essere nella posizione di chi doveva guardare ciò che stava accadendo lì sotto. Di lì a poco, infatti, tornò Amos seguito da quattro donne: una molto più anziana, le altre tre, evidentemente, schiave. Una portava con sé un'anfora d'acqua, le due entrate un po' più tardi qualche contenitore per olio e coperte.

Credeva che sarebbero rimasti sconvolti quanto lei, invece la levatrice si chinò fra le sue gambe e, con espressione impassibile, iniziò a sciacquarsi le mani con l'acqua dell'anfora. Una delle schiave le mise un panno ripiegato sotto la testa a far da cuscino, le altre due iniziarono a dispiegare le coperte. Non riusciva ad incrociare lo sguardo di nessuna di loro. Erano concentrate, eppure nessuna si accorgeva del suo respiro che diventava sempre più veloce e affaticato, del viso che impallidiva.

Amos era in piedi sulla soglia della porta. Improvvisamente desiderò che rimanesse lui soltanto e che si occupasse di tutto, anziché lasciare la situazione in mano a quelle donne che neanche conosceva. Quando fece per andarsene, Danae allungò una mano verso di lui e lo chiamò. Amos si avvicinò e si chinò piano su di lei.

<<Andrà bene.>> le disse, ma lei scosse la testa e gli afferrò il polso con violenza.

<<Non mi lasciare da sola con loro, ti prego>> bisbigliò fra i denti con la voce disperata, sperando che non la stessero sentendo <<Non ce la faccio da sola.>>

Sapeva che Amos si stava accorgendo del modo in cui le forze la stavano abbandonando e la pelle sbiancava, eppure rimaneva fermo senza distogliere lo sguardo dal suo. <<Sì, ce la fai. E' doloroso, ma se ti sforzi e lavori bene passerà presto.>>

<<Non mi stai ascoltando!>> gridò, e a questo punto la levatrice le afferrò le gambe e le impose di lasciarle aperte il più possibile rimanendo assolutamente immobile.

GHIGHNOMAIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora