PROLOGO - Lui è arrivato

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Era una giornata fredda.

Una di quelle giornate in cui la neve era scesa tutta la notte sopra i tetti, scivolando lungo il pendio dei monti come il cotone sopra i presepi, sicché la mattina dopo restavano solo le tracce incerte dei cervi a testimoniare che il clima, durante la notte, era sceso sotto lo zero.

Mirabel aveva sempre ammirato la neve.

Fin da quando era bambina, non appena sveglia, stava ore col naso appiccicato al vetro freddo della cucina e la bocca aperta in una "oh" perfetta a vederla scendere su case e cose, stupita dal modo in cui il suo manto bianco riusciva a silenziare la realtà e trasfigurare il paesaggio in case e cose nuove.

Era come se, durante la notte, uno stregone matto si fosse divertito a spargere sul mondo un velo di zucchero filato per poi, alle prime luci dell'alba, svelare e rivelare al mondo le sue trame e sottotrame misteriose.

Il cespuglio di erica che diventava il lenzuolo di un fantasma. I rami dell'abete di fronte a casa, le corna brillanti di un cervo. La rete del cancello di ferro, un'altalena sospesa fra le nuvole di seta. Se avesse potuto, l'avrebbe fatto per tutto il giorno di starsene là, rannicchiata in un angolo caldo e illuminata da una luce abbagliante, riflessa, a inventare storie fantasiose finché il suo naso non fosse diventato più rosso di quello di un pagliaccio e la "oh" perfetta delle sue labbra un alone di fiato condensato sul vetro della finestra.

Ci voleva una buona immaginazione per riuscire a guardare il mondo da un'altra angolazione; e la neve, con quel suo modo di ammantare il reale d'irreale, lo rendeva più facile.

Era stata Halley, sua madre, a insegnarle il potere salvifico delle storie immaginarie; ma era stato per la sua capacità innata di mirare, e di ammirare, le cose oltre il loro velo d'apparenza a far sì che i suoi genitori avessero deciso di chiamarla "Mirabel".

Suo padre Michael le aveva raccontato che quando, diciassette anni prima, si era affacciata al mondo e alle loro facce estasiate, stretta tra le fasce bianche e le braccia rosa di sua madre, lei non aveva pianto: li aveva ammirati in silenzio, invece, con gli spalancati e le labbra aperte in quella "oh" si stupore perfetta, quasi che fosse stata meravigliata lei stessa di aver visto finalmente la luce.

Un inno alla vita. Un miracolo nel miracolo. Questo era stata la sua nascita per chi aveva rischiato la vita nel darla alla luce; e questo, probabilmente, era anche uno dei motivi inconfessati per cui i suoi genitori avevano deciso di chiamarla "Mirabel": essere stata una specie di miracolata che, fin dal primo momento in cui aveva visto la luce, sembrava aver avuto la consapevolezza di aver corso il rischio di non vederla. Di non vedere mai la vita.

Quel sabato notte d'inizio gennaio, tuttavia, Mirabel aveva dormito male, di un sonno turbato da un brutto sogno, sicché la mattina dopo avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non dover uscire da sotto il rifugio caldo del suo piumone.

Aveva provato ad allungare un alluce fuori dal materasso, ma l'aveva ritratto così rattrappito dal freddo da ritrattare subito la sua buona intenzione di scendere in cucina a fare colazione.

L'odore di ciambelle al miele che saliva al primo piano sospinto dal tepore delle stufe accese. Lo spettacolo immacolato della neve fuori dalle finestre. L'eco delle campane di Don Daniel che, al solito, si erano messe a squillare contro le montagne ben prima delle sette.

Niente di più o meno invitante l'avrebbe costretta ad abbandonare il tepore del suo letto. O, almeno, questo era ciò che Mirabel si era detta quel giorno, ancora ignara del fatto che se lo sarebbe ripetuto anche molto tempo dopo di aver sbagliato a ignorare i segnali di un incubo di cui, al risveglio, ricordava solo i contorni sfumati di un cielo lacerato dai lampi e che invece, col senno del poi, si sarebbe rivelato essere la prima, vera, premonizione della sua vita.

Come un'ombra col soleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora