CAPITOLO 34 - Ingannare la morte

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I

L'uomo dal sangue infetto era seduto sulla sedia al centro della cella, dei raggi di sole gli illuminavano il corpo dall'alto. Damiano e Nereo andarono a fargli visita nuovamente. Lo trovarono debilitato e stanco, con gli occhi chiusi e la testa china sul busto.

«Spero che questi giorni di prigionia ti abbiano portato consiglio...» disse Nereo svegliando l'uomo, che aprì le palpebre con fatica, ma aprì la bocca senza problemi per sorridergli.

«Ancora non avete cavato un ragno da un buco scommetto?»

«Se non parli, la prima cosa che caverò da quella tua faccia da sterco, saranno i tuoi occhi» lo minacciò Damiano.

«Non ho paura! La "Ragade nera" vi ucciderà uno ad uno»

Questo nome fece sussultare Nereo, che si fece più pressante nel porre domande.

«Questo "Ragade nera" di voi non se ne importa, altrimenti non vi farebbe marcire in queste prigioni, perché continuate a proteggerlo?»

«Voi non capite un cazzo... Se non fosse per lui, questo paese sarebbe marcito molto prima» disse ridendo.

«Che stai dicendo?»

«Una cosa che non potrete mai capire voi coglioni»

«Vedo che non mi lasci altra scelta... Ti lascio con il mio amico, che come puoi ricordare, non è accomodante quanto me»

Nereo lasciò la cella e Damiano sorrise di gusto all'indemoniato, facendogli sentire lo scricchiolio delle sue nocche.

II

Era passato qualche minuto e Nereo non sentiva più le urla di dolore del detenuto. Damiano uscì dalla cella ricoperto di sangue nero e con un'espressione che non prometteva nulla di buono.

«Sei riuscito a farlo parlare?»

«Nulla che non avesse già detto» rispose sconvolto.

«Allora sarà il caso di continuare finché c'è luce... non può essere così resis...»

«È morto»

Nereo in quel momento stava andando nella cella, ma si bloccò di colpo, come se avesse ricevuto un pugno forte allo stomaco. Si girò verso Damiano e lo guardò in malo modo.

«Morto? Ma perché l'hai ucciso?»

«Senti, io so come fare il mio lavoro... ma questi tizi non hanno più niente di umano! Non faceva altro che ridere e ripetere che siamo tutti già morti... e più rideva, più io lo colpivo. La luce del sole deve aver fatto più che indebolirlo...» Nereo non gli rispondeva «Che cosa intendi fare ora?»

Il nobile alchimista era perplesso e la sua faccia rasentava solo insicurezza. La sua mente si stava sforzando a trovare una soluzione, ma al momento non riusciva a venirne a capo.

«Ho bisogno di riflettere... da solo» si congedò lasciando Damiano in balia dei suoi dubbi, con le braccia ancora sporche di sangue.

III

Dal terrazzo del castello si poteva ammirare tutta la città dall'alto. All'orizzonte c'era un'immensa vallata verde e di sfondo si scorgeva l'immenso monte Luet, alto più di 1300 m. Si potevano udire le voci in lontananza provenienti dal mercato, che si mischiavano con il fruscio del vento. Il sole picchiava sui tetti delle abitazioni e nell'aria c'era una brezza fresca, sembrava una bella giornata, se solo non si fossero trovati a Rocca Leone, la città che con il calare della notte cambiava in modo radicale il comportamento dei suoi abitanti. Era passato un mese e venti giorni, ma la causa di questo male ancora non si era trovata. Lo sapeva bene Nereo, che studiava ogni giorno un modo per risolvere la faccenda. L'unica cosa da fare era far parlare i detenuti, ma quelli non erano per nulla collaborativi, e Nereo, dopo la morte del prigioniero infetto, era sconfortato e stanco.

Andò a prendere un po' d'aria sulle mura e camminando notò una figura familiare in lontananza, era affacciata su uno dei terrazzi del castello. Aguzzando la vista capì che si trattava di Zoe. La sua indole introversa non lo spingeva a relazionarsi con il prossimo e diffidava sempre di tutti, ma in quest'occasione fece un'eccezione.

La ragazza smise di guardare il panorama, Nereo si accostò a lei e si affacciò rimanendo in silenzio.

«Ti vedo più serio del solito, com'è andata?» gli chiese la maga.

«Ne abbiamo perso un altro...»

La maga fece una smorfia di disapprovazione e scosse la testa. Vide Nereo abbattersi ancora di più e per un attimo gli fece pena.

«Ma almeno siete riusciti a scoprire qualcosa?»

«L'interrogatorio non ha dato nessun risultato»

«Capisco... non puoi divorarti così per un fallimento» Nereo non gli rispondeva, era come assente «Anche a me è capitato spesso di fallire, eppure vado avanti senza farmi problemi, per mia sorella ho creato un sacco di pozioni curative raccogliendo fiori e piante, ma ho sempre fallito miseramente, però non mi abbatto» Nereo stavolta rivolse lo sguardo verso di lei e le prestò attenzione «Non vedo l'ora di rivederla sorridere e correre nel giardino» All'alchimista scappò un sorriso compassionevole e dopo guardò il cielo «Per ora mi basta essere riuscita a "ingannare" la morte e non avermela fatta portare via. Ti assicuro che anche solo aver ottenuto questa tregua con la morte, non è stato facile...»

Nereo alzò il sopracciglio e smise di guardare il cielo, per poi voltarsi di scatto verso Zoe.

«Ripeti quello che hai detto!»

«Ho detto che anche essere riuscita a non farla morire è stato un gran risultato per me»

«No, non hai detto questo. Hai detto "ingannare la morte"»

«Sì... e... allora?» chiese perplessa.

«E allora...» sorrise beffardo «Inganniamo anche noi!»

IV

Tessa e Gabriele si stavano recando al castello, Nereo voleva parlargli di una cosa importante. Passarono per il paese e sentirono in lontananza il rumore di molti zoccoli di cavallo battere all'unisono.

Gabriele vide avvicinarsi un gruppo di cinque cavalieri in armatura. Dal pennacchio blu e dal leone dorato che avevano come vessillo, non aveva dubbi, erano cavalieri del reggimento di Re Edoardo.

In testa a tutti c'era il loro campione, aveva un'andatura fiera e così anche i suoi compagni. Le persone li guardavano con ammirazione, ma anche un po' di timore e soggezione, visto che nessuno li si avvicinava e preferivano rimanere in casa, o ai lati della strada.

L'unico che ci provò fu Gabriele. Si avvicinò a loro e fece il saluto a cui era abituato fare, quando era nell'esercito: si mise sull'attenti e si batté il pugno destro sul pettorale sinistro all'altezza del cuore, chinando lievemente il capo. I cavalli si fermarono, quattro di loro fecero lo stesso saluto tranne il cavaliere davanti a tutti. Si tolsero tutti l'elmo, erano tutti giovani e senza un filo di barba. Anche il loro campione si tolse l'elmo, ma aveva una barba curata, dei capelli biondi lunghi fino al collo e gli occhi azzurri. I suoi lineamenti erano segnati dal tempo e dalle battaglie, ne era una prova la cicatrice all'altezza dell'occhio destro. Dall'aspetto del suo viso si poteva intuire che fosse coetaneo di Gabriele.

Lo guardò con attenzione e lo riconobbe. Era Lorenzo De Angelis, il suo vecchio amico, che gli rivolgeva uno sguardo tetro e rancoroso. Era da troppo che non lo vedeva e provò a parlargli.

«Loren...»

Nemmeno il tempo di finire di chiamarlo, che lui incitò il cavallo e galoppò verso la basilica di Tolomei. Gli altri lo seguirono e alzarono dal terreno una nube di polvere.

Tessa tossì e con la mano cercò di allontanare la coltre che si era formata.

«Sono tutti così educati i cavalieri?» borbottò la ladra, mentre si toglieva la polvere dai vestiti.

«No... quello era un mio amico» rispose Gabriele con perplessità.

«Ah... e figuriamoci se ti era nemico»

Cronache di Stivalia - La condanna di Rocca LeoneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora