PROLOGO

55 11 2
                                    

La neve fioccava pigramente, un velo che si poggiava lieve al terreno, andando a ingrossare la coltre bianca che già avvolgeva il paesaggio nel proprio gelido abbraccio. 

Era caduta copiosa nei giorni precedenti, insistente. Una neve cattiva che tutto cela, anche la via di casa. La furia della tempesta invernale, però, sembrava essersi ormai placata. I lenti fiocchi che ancora danzavano nell'aria, conferivano al paesaggio un'aria eterea di fiaba. Alberi spogli e sempreverdi, silenti sentinelle ammantate, svettavano su ogni lato, unici testimoni. Un sospiro nel vento, singhiozzi che rompono il silenzio. 

Una figura di donna che irrompe a turbare la quiete di quel paesaggio avvolto in un sogno ovattato. Incedeva lenta, impacciata, aprendosi faticosamente la strada nella neve intonsa, affondando a ogni passo fin sopra al ginocchio; il respiro affannato, l'acconciatura ormai sciolta, i lunghi capelli corvini che si confondevano con il nero dello scialle di lana in cui si era avvolta. La neve s'intrufolava negli stivali, impregnava le calze.  I vestiti che indossava non erano sufficienti a difenderla dal freddo impietoso della neve, le mani senza guanti erano gonfie e arrossate. La donna dalla figura esile tremava, eppure continuava ad avanzare, inarrestabile, implacabile, la determinazione assoluta che la animava, dipinta sul suo viso. Un viso bellissimo il suo, perfetto nei lineamenti e nelle simmetrie, le guance tinte di rosso dal freddo e dalla fatica. Un viso percorso da gelide lacrime, solchi di dolore lungo le guance, ma una determinazione incrollabile brillava nei suoi occhi grigi di tempesta, mentre proseguiva il cammino senza mai voltarsi indietro. Il dolore che la flagellava era grande, la rabbia ardente che la bruciava dentro lo era di più.

Aveva una missione da compiere e nulla, non l'inclemenza degli elementi, né mano umana le avrebbe impedito di raggiungere la sua meta. Chiunque, vedendola, se ne sarebbe reso conto ma non c'era nessuno a osservarla. Nessuno, solo gli alberi indifferenti, muti e la neve silente.

 All'improvviso inciampò. Forse una radice nascosta, forse qualche altra asperità nel terreno coperto. Perse l'equilibrio e cadde in ginocchio. Istintivamente allungò le mani davanti a sé per attutire il colpo, affondando nella neve. Per un attimo rimase immobile, respirando affannosamente, una donna forte tornata d'un tratto fragile. Il mondo trattenne il respiro.

 Sconfitta dunque? Di già, così presto? Tanta forza e determinazione piegate da una semplice radice sepolta, da un masso invisibile? Il suo spirito schiacciato dal peso di mille verità negate, di cento silenzi colpevoli? 

La mano destra corse al ventre. No, non ancora. La furia le urlava nel cuore. L'urlo le sgorgò dal petto, raggiunse le labbra e si librò nel cielo, rompendo il silenzio del giorno d'inverno. Anni di muta condiscendenza spazzati via in un unico grido. La donna urlò al mondo la propria rabbia, un definitivo rifiuto alla muta sofferenza cui il mondo l'aveva condannata, una sfida contro il cielo stesso, la prima, vera affermazione al proprio diritto a esistere. Faticosamente si rialzò in piedi. Barcollò un attimo ma subito riprese il cammino. 

Anni di bugie, ma ormai lei aveva scoperto la verità. La rabbia per una verità a lungo negata può essere una forza potente, sufficiente per spingere il corpo a muoversi anche quando il respiro brucia nel petto per il freddo e per la fatica e quando le membra si fanno così pesanti da sembrare macigni. Non poteva permettersi di esitare, di attendere, di fermarsi a prendere fiato. Non c'era molto tempo. Lo sapeva, lo sentiva. Proseguiva e intanto malediceva quell'inverno troppo freddo, quella neve troppo alta, quella natura che la ostacolava proprio come per anni avevano fatto le persone attorno a lei. 

Pazza, l'avevano chiamata. 

"È bella ma è matta", diceva la gente alle sue spalle, e quelli erano tra i commenti più garbati. 

Le loro opinioni non la ferivano più, con gli anni aveva imparato a indossare una corazza contro gli impietosi affondi delle malelingue. Forse l'avrebbero detto di nuovo ma, per una volta, lei non avrebbe taciuto. Onta e disonore, tutti concetti privi d'importanza, che impallidivano di fronte al dovere, limpido e semplice, di dire la verità. Lei l'avrebbe detta tutta, fino all'ultima stilla. Incurante delle conseguenze, avrebbe squarciato il velo, rivelato il marciume che si celava dietro la lustra facciata. La verità rende liberi. Quella stessa verità probabilmente avrebbe segnato la sua condanna, la fine della vita per come la conosceva, l'isolamento, l'esilio. Lo sapeva e lo aveva accettato. 

Per la prima volta nella sua vita camminando, pregava in silenzio, lei che aveva ripudiato la Chiesa e le sacre funzioni non appena aveva avuto l'età per prendere decisioni autonome, in quel mattino grigio, pregava. Pregava i Santi del Paradiso, e anche i demoni dell'inferno. Non chiedeva loro molto: soltanto che le forze non le venissero meno, che la voce non le mancasse al momento di pronunciare l'accusa. Chiedeva ancora qualche ora appena. Sapeva che non avrebbe ottenuto giustizia, non in quel luogo, non in quel tempo. Tutto per una piccola soddisfazione, la sola che rimane ai deboli e agli inermi che pure sono consapevoli di essere nel giusto, la possibilità di guardare negli occhi chi invece ha il peso della colpa a gravargli il cuore e dirgli: «Io so.» 

La sua vita era finita, distrutta per sempre qualsiasi speranza nel futuro, e allora perché non prendersi almeno una volta la soddisfazione di lanciare la propria accusa nei confronti di chi l'aveva precipitata in quell'inferno? Il dolore scavò all'improvviso un varco nella corazza di furore in cui aveva avvolto il proprio animo. Gli occhi le si colmarono nuovamente di lacrime e il peso della sofferenza parve sul punto di vincere la sua determinazione. Per la seconda volta esitò, ma subito asciugò le lacrime con un gesto rabbioso della mano, scacciando con foga il dolore. Quella sofferenza e tutti i ricordi dolci-amari che celava, ormai erano inutili, solo la verità contava, lo aveva promesso a se stessa. 

Non mancava molto. Tra gli alberi in lontananza ecco che intravedeva stagliarsi sempre più nitidi i contorni della sua meta. Il suo cuore palpitò all'improvviso di gioia violenta. Era vicina, nessuno le avrebbe più impedito di parlare. 

La neve infida mascherò i rumori, per questo non sentì la propria fine arrivare fin quando non fu troppo tardi. Quando avvertì il suo fiato sulla nuca non c'era più tempo per reagire, nessuna opportunità di difendersi. L'ultima cosa che sentì fu il bacio freddo della lama nella carne. La lama andò a fondo, sempre più a fondo, poi all'improvviso si ritrasse. Una mano premuta sulla bocca soffocò il suo grido. Quando anche l'ultimo respiro si fu spento nel suo petto, lui la lasciò andare. Il corpo si accasciò al suolo e lei rimase lì, gli occhi grigi spalancati a fissare il cielo.

 Rimase per un attimo fermo a guardarla. Ripose il coltello insanguinato e sollevò il corpo, incamminandosi tra gli alberi. Non pesava molto, era abituato a trasportare ben altri carichi.

 Tutto quello che rimase della donna, fu una chiazza di sangue sul candore che nascondeva il terreno. La neve però continuava a fioccare. Non occorse molto tempo perché cancellasse anche quell'ultima traccia di lei.


**************************************

Come chi ha già letto le altre mie storie saprà, mi piace spaziare tra i generi letterari, e questa volta vi propongo un giallo, scritto per un concorso letterario. 

Ancora una volta, a chiunque sceglierà di avventurarsi tra le pagine di questa storia dico grazie, e auguro buona lettura!

Sotto allo sguardo indifferente degli alberiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora